Syme alzò gli occhi. «Ecco Parsons» disse.
Dal tono della voce sembrava che volesse aggiungere, “quell’imbecille”. Parsons, il coinquilino di Winston negli Appartamenti Vittoria, un uomo di media corporatura, pienotto, coi capelli chiari e una faccia da rana, stava effettivamente avanzando verso di loro. A trentacinque anni stava già mettendo rotoli di grasso attorno al collo e ai fianchi, ma aveva ancora movimenti scattanti e giovanili. L’impressione generale che dava era quella di un bambino malcresciuto, tanto che, sebbene indossasse la tuta regolamentare, era impossibile non immaginarlo con i calzoncini corti, la camicia grigia e il fazzoletto rosso delle Spie. Se pensavate a lui, immaginavate immancabilmente due ginocchia rotondette e un paio di maniche di camicia arrotolate su due tozze braccia. D’altra parte, Parsons indossava i calzoncini tutte le volte che una gita di gruppo o una qualsiasi attività fisica gliene offrivano il pretesto. Salutò entrambi con un caloroso «Ciao!» e si sedette al loro tavolo, emanando una poderosa zaffata del sudore che gli imperlava il volto acceso dal caldo. La sua traspirazione era strabiliante: al Centro Sociale, quando il manico della racchetta era tutto bagnato, voleva dire che Parsons aveva giocato a ping-pong. Intanto Syme aveva tirato fuori una striscia di carta con un lungo elenco di parole e la stava studiando stringendo una penna fra le dita.
«Ma guardatelo come lavora anche all’ora di pranzo!» disse Parsons, dando di gomito a Winston. «Il senso del dovere, eh? Che tieni lì, vecchio mio? Certamente qualcosa di troppo intelligente per me. Winston, amico mio, ti stavo cercando. È per via di quella sottoscrizione che ti sei scordato.»
«Quale sottoscrizione?» rispose Winston, tastando automaticamente il denaro che aveva in tasca. Circa un quarto della paga se ne andava in sottoscrizioni volontarie, tanto numerose che non si riusciva a tenerne il conto.
«È per la Settimana dell’Odio… la colletta porta a porta. Io sono il tesoriere del nostro caseggiato. Stiamo facendo uno sforzo colossale. Vogliamo fare un figurone. Ti avverto, non sarà colpa mia se gli Appartamenti Vittoria non presenteranno il più bell’addobbo di bandiere dell’intera strada. Avevi promesso di darmi due dollari.»
Winston si cercò in tasca, quindi gli porse due banconote sudice e spiegazzate, che Parsons registrò in un taccuino, con quella calligrafia chiarissima tipica degli incolti.
«A proposito, vecchio mio» disse, «ho saputo che ieri quel diavoletto di mio figlio ti ha mollato un colpo di fionda. Gli ho dato il fatto suo, gli ho anche detto che se lo fa un’altra volta la fionda gliela sequestro.»
«Penso che fosse un po’ arrabbiato perché non era potuto andare a vedere l’impiccagione» disse Winston.
«Adesso ho capito! È questo lo spirito giusto, no? Voglio dire, lui e la sorella sono due diavoletti, ma quanto al dovere! Non fanno che pensare alle Spie, e alla guerra, naturalmente. Lo sai che cos’ha fatto la mia piccina sabato scorso, quando è andata in gita a Berkhamstead con la sua squadra? Ha convinto altre due bambine a seguirla, se la sono svignata dal gruppo e si sono messe per l’intero pomeriggio alle calcagna di un tizio che ai loro occhi aveva un atteggiamento strano. Lo hanno pedinato per due ore, seguendolo anche nei boschi, e poi, una volta arrivati a Marsham, lo hanno consegnato alla pattuglia.»
«E perché mai?» chiese Winston, un po’ colto di sorpresa. Parsons continuò, con aria trionfante:
«La mia piccina era certa che si trattasse di una specie di agente nemico, magari atterrato col paracadute; ma il bello deve ancora venire. Cosa credi che l’abbia insospettita? Si era accorta che quell’uomo indossava un bizzarro paio di scarpe, ha detto che non aveva mai visto scarpe simili. E così, poteva benissimo trattarsi di uno straniero. Niente male per una birichina di sette anni, vero?»
«E che ne è stato dell’uomo?» chiese Winston.
«Ah, non lo so, ma non sarei affatto sorpreso se…» Parsons fece il gesto di chi punta un fucile, poi fece schioccare la lingua per imitare uno sparo.
«Bene» disse Syme senza scomporsi e senza alzare gli occhi dal suo pezzo di carta.
«Penso anch’io che non possiamo correre rischi» disse Winston, senza palesare nulla che potesse apparire eccentrico.
«Siamo in guerra» disse Parsons.
Quasi a darne conferma, uno squillo di tromba proruppe dal teleschermo proprio sopra le loro teste. Stavolta non si trattava dell’annuncio di una vittoria militare, ma solo di un avviso del Ministero dell’Abbondanza.
«Compagni» gridò una voce giovanile ed entusiasta, «compagni, attenzione! Abbiamo per voi notizie straordinarie. La battaglia per la produzione è stata vinta! Sono stati chiusi i rendiconti relativi alla produzione di tutti i beni di consumo, dai quali emerge che rispetto all’anno scorso il tenore di vita si è innalzato di almeno il 20 per cento. Stamattina in tutta l’Oceania si sono svolte irrefrenabili manifestazioni spontanee. I lavoratori sono usciti in massa dalle fabbriche e dagli uffici e sono sfilati per le strade, innalzando striscioni e gridando la loro gratitudine nei confronti del Grande Fratello per l’esistenza nuova e felice che la sua sapiente guida ci ha garantito. Diamo ora lettura di alcuni dati completi: generi alimentari…»
L’espressione “esistenza nuova e felice” tornò più volte, un ritornello da qualche tempo caro al Ministero dell’Abbondanza. Parsons, catturato dallo squillo di tromba, se ne stava in ascolto con un’aria di stuporosa solennità e di nobilitato tedio dipinti sul volto. Aveva tirato fuori una grossa e sudicia pipa, già per metà piena di tabacco bruciacchiato (con la razione di tabacco fissata a cento grammi la settimana, raramente si riusciva a riempire una pipa fino all’orlo). Winston, invece, fumava una Sigaretta Vittoria, tenendola accuratamente in posizione orizzontale: la nuova razione non sarebbe stata distribuita prima dell’indomani e di sigarette gliene erano rimaste solo quattro. Al momento aveva smesso di porgere l’orecchio ai rumori più lontani e si era messo ad ascoltare quello che proveniva dal teleschermo. A quanto pareva, vi erano state anche manifestazioni di ringraziamento al Grande Fratello per aver aumentato la razione settimanale di cioccolato, portandola a venti grammi. Ma se appena ieri, pensò Winston, avevano annunciato che la razione di cioccolato doveva essere abbassata a venti grammi! Possibile che potessero mandare giù una balla simile a distanza di sole ventiquattr’ore? Sì, era possibile. Parsons se l’era bevuta tranquillamente, con la stupidità di un animale. Quell’essere senza occhi seduto al tavolo di fronte se l’era bevuta con l’entusiasmo del fanatico e avrebbe snidato, denunciato e vaporizzato come una furia chiunque avesse fatto notare che fino alla settimana precedente la razione di cioccolato era stata di trenta grammi. E pure Syme, magari in una maniera più complessa, implicante una qualche dose di bipensiero, pure Syme se l’era bevuta. Era quindi solo lui, Winston, a possedere una memoria?
Lo schermo continuava a riversare quelle cifre favolose. Rispetto a tre anni prima, erano aumentati i prodotti alimentari, i vestiti, i mobili, il pentolame, il combustibile, le navi, gli elicotteri, i libri, le nascite: c’era stato insomma un incremento in tutto, tranne che nelle malattie, nella delinquenza e nella follia. Anno dopo anno, minuto dopo minuto, tutto e tutti stavano facendo strepitosi balzi in avanti. Come prima Syme, Winston aveva sollevato il cucchiaio e rimestava nel sugo scolorito che colava sul tavolo, tracciandovi dei disegni e nello stesso tempo riflettendo, pieno di rancore, sui meri aspetti fisici dell’esistenza. Era stato sempre così? Il sapore del cibo era stato sempre questo? Si guardò intorno. Ecco la mensa: un locale basso e affollato, pareti rese bisunte dal contatto di innumerevoli corpi, tavoli e sedie in metallo tutti malconci, così accostati gli uni agli altri che i vostri gomiti toccavano quelli del vicino, cucchiai piegati, vassoi pieni di ammaccature, boccali di un bianco sporco, un pavimento anch’esso unto e tutto crepe, un fetore acidulo nel quale confluivano gli olezzi del gin e del caffè scadenti, degli abiti sporchi e di quello stufato che sapeva d’alluminio. Costantemente, nello stomaco e nella pelle, albergava una sorta di protesta, la sensazione di essere stati defraudati di qualcosa a cui si aveva diritto. Era vero, tuttavia, che i vostri ricordi non vi rimandavano a nulla di diverso. Per quanto Winston riuscisse a spaziare nel passato, non c’era mai stato cibo a sufficienza, non c’erano mai stati calzini o biancheria intima che non fossero pieni di buchi, i mobili non erano mai stati altro che uno sgangherato ciarpame, gli ambienti riscaldati poco e male, i treni della metropolitana affollati, le case cadenti, il pane sempre nero, il tè una rarità, il caffè nauseabondo, le sigarette insufficienti… non v’era nulla che costasse poco o fosse disponibile in abbondanza, tranne il gin sintetico. E se tutto ciò peggiorava, naturalmente, a mano a mano che il corpo invecchiava, non costituiva comunque il segno che non era questo l’ordine naturale delle cose, se era vero che il cuore vi veniva meno per lo sconforto, la sporcizia, la scarsità di ogni bene, per gli inverni interminabili, i calzini che si attaccavano alle scarpe, gli ascensori che non funzionavano mai, l’acqua gelata, il sapone che sembrava fosse fatto con la sabbia, le sigarette che si sbriciolavano fra le dita, il cibo dal sapore strano, malefico? Come sarebbe potuto apparire intollerabile, tutto ciò, se non si fosse conservato una sorta di ancestrale ricordo che le cose un tempo erano state diverse?