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«Pensi un po’!» disse Rumata sottovoce. «E i terrestri credono ancora oggi che i nostri fisici si occupino dei problemi più complessi…»

Kondor si alzò di scatto.

«Ah, finalmente» mormorò.

Dall’esterno proveniva un nitrito rabbioso e disperato, un rumore di zoccoli che scalpitavano e l’imprecare energico di una voce dal forte accento irukano. Un uomo entrò nella stanza. Era Don Hug, primo gentiluomo della camera di Sua Signoria il Duca di Irukan. Era robusto e rubizzo, con i baffetti arricciati e un sorriso che andava da un orecchio all’altro. Sotto i riccioli ramati della parrucca brillavano due occhietti allegri. Ancora una volta Rumata avrebbe voluto obbedire all’impulso di abbracciare il nuovo arrivato: Pashka, il suo amico d’infanzia. Ma Don Hug assunse subito un atteggiamento formale, il suo viso esibì il fastidioso sorriso mellifluo richiesto dall’etichetta. Si inchinò svelto, premendo il cappello sul petto e arricciando le labbra.

Rumata guardò furtivamente Aleksandr Vassilevic. Aleksandr Vassilevic era scomparso, al suo posto c’era Don Kondor, Giudice Supremo e Guardasigilli, con le gambe allungate, la sinistra appoggiata sul fianco e la destra che stringeva l’elsa della spada cesellata.

«È molto in ritardo, Don Hug» disse con tono sgradevole.

«Vi chiedo umilmente perdono!» esclamò l’altro, avvicinandosi subito al tavolo.

«Lo giuro sui reumatismi del Duca, è tutta colpa di circostanze imprevedibili e sfortunate! Sono stato fermato quattro volte dalle pattuglie di Sua Altezza il Re di Arkanar, e ho dovuto battermi due volte contro dei briganti». Sollevò la mano sinistra, con un movimento elegante, per mostrare il braccio bendato e insanguinato.

«A proposito, signore, di chi è l’elicottero dietro la capanna?»

«È mio» rispose seccamente Don Kondor. «Io non ho tempo da perdere ad azzuffarmi per strada».

Don Hug sorrise amabilmente e si sedette a cavalcioni sulla panca. «In altre parole, signori, siamo costretti ad ammettere che il nostro dottor Budach è scomparso misteriosamente da qualche parte tra il confine irukano e la Piazza delle Spade Pesanti…»

Padre Kabani si mosse. Si voltò nel sonno, e senza svegliarsi bofonchiò: «Don Reba…»

«Lasciate a me Budach» disse Rumata in tono disperato «e malgrado tutto, per favore, cercate di capirmi…»

Capitolo II

Rumata si svegliò di soprassalto. Aprì gli occhi. Era ormai giorno. Per strada, proprio sotto le sue finestre, si sentiva litigare. Qualcuno, probabilmente un soldato, gridava: «Maledetto pezzente! Guarda che schifo! Te lo faccio pulire con la lingua!

Zitto! Giuro sulla gobba di san Michele che mi stai facendo uscire dai gangheri!» Buongiorno, pensò Rumata.

Un’altra voce, rauca e grossolana, brontolava: «Farebbe meglio a guardare dove mette i piedi, in questa strada schifosa! Stamattina è piovuto, ma chi lo sa quando hanno spazzato l’ultima volta».

«Mi vuoi insegnare dove devo guardare, eh?» «Farebbe meglio a lasciarmi andare, signore. Vuole lasciarmi stare?» «Oh, certo, certo…» Rumata sentì il rumore di uno schiaffo. Era evidentemente il secondo. Il primo lo aveva svegliato.

«Farebbe meglio a smetterla, signore». Una voce familiare. Chi poteva essere?

Probabilmente Don Tameo. «Oggi gli farò riprendere quel ronzino decrepito. Chissà se imparerò mai a distinguere un buon cavallo da uno scadente. Ma del resto in famiglia non siamo famosi come esperti di cavalli. Cammelli, sì. Siamo esperti in cammelli da combattimento. Meno male che qui su Arkanar non ce n’è quasi».

Rumata si stiracchiò fino a sentir scricchiolare le giunture. Cercò a tastoni il cordone di seta appeso alla testiera del letto e lo tirò. Sentì suonare i campanelli, ma non giunse nessuno. «Sarà senz’altro alla finestra a guardare la rissa. Potrei anche alzarmi e vestirmi da solo, ma darei solo adito a nuove chiacchiere».

Ascoltò di nuovo l’ondata di insulti che proveniva dalla strada. L’inventiva della lingua umana! Che entropia, che contrasto con l’incertezza della conoscenza!

«Ultimamente» continuò a riflettere Rumata «tra le truppe della guardia sono comparsi dei sapientoni che affermano che in battaglia si può usare una spada soltanto, mentre la seconda dev’essere riservata ai duelli per strada… E Don Reba presta troppa attenzione alle loro preoccupazioni nella gaia Arkanar. A proposito, Don Tameo non è uno di loro. È troppo vigliacco, il nostro caro Don Tameo, un incorreggibile politicante da salotto. È proprio orribile cominciare la giornata con Don Tameo…» Si sedette sul letto, intrecciando le mani intorno alle ginocchia sotto il copriletto ricamato. Era in preda alla più nera disperazione. «Si può meditare in eterno, continuare a riflettere sulla nostra impotenza di fronte alle circostanze… Sulla Terra non mi sognerei neppure di farlo. Sulla Terra siamo uomini forti e decisi, con un addestramento psicologico specializzato, pronti a tutto. E abbiamo i nervi saldi. Per esempio riusciamo a non distogliere lo sguardo quando un poveraccio viene picchiato o giustiziato. Siamo capaci di esercitare un autocontrollo tremendo. Riusciamo ad ascoltare imperturbabili le chiacchiere incessanti degli idioti più abbietti. Abbiamo anche dimenticato come si fa a disgustarsi. Non ci importa se ci mettono davanti un piatto da cui ha mangiato un cane, o pulito con uno straccio sporco. Non siamo attori meravigliosi? Non ricadiamo nella nostra lingua madre o in un’altra lingua terrestre neppure in sogno. Dopotutto disponiamo di un’arma invincibile: la basilare teoria del feudalesimo, elaborata nei nostri uffici tranquilli e nei nostri attrezzati laboratori, basata su ricerche assidue e discussioni serie…

«È un vero peccato che Don Reba non abbia la minima cognizione di quella teoria.

Ed è un vero peccato che il nostro addestramento psicologico si stacchi come pelle bruciata, che dobbiamo adattarci a condizioni estreme, che siamo costretti a subire un costante ricondizionamento mentale: stringi i denti e ricordati che sei un dio in incognito. Ricordati che loro non sanno quello che fanno, e che sono quasi del tutto esenti da colpe. E per questo devi avere la pazienza di Giobbe, pazienza, pazienza… E intanto le fonti dell’umanesimo dentro di noi, che sulla Terra sembravano inesauribili, qui si stanno inaridendo a velocità impressionante. San Michele! Sulla Terra non eravamo forse dei veri umanisti, degli amanti dell’umanità? L’umanesimo era il sostegno della nostra natura, e nel nostro rispetto per l’essere umano, nel nostro amore per l’uomo eravamo quasi giunti all’antropocentrismo… Adesso scopriamo con orrore che in realtà non amavamo l’umanità, ma i nostri compagni, i compatrioti che ci assomigliavano… E sempre più spesso ci scopriamo a chiederci: ma questi sono proprio esseri umani? Saranno capaci di diventarlo, con il tempo? E poi ricordiamo persone come Kyra, Budach, Arata il gobbo, o l’insuperabile barone Pampa, e ci vergogniamo… Ma anche questo è altrettanto raro e spiacevole. Peggio ancora, non ci aiuta affatto…

«Va bene, basta così. Non al mattino presto, almeno. E al diavolo Don Tameo!

Dentro di me si sono accumulati tanti problemi, e in questo isolamento non ho modo di sbarazzarmene. Ecco cosa mi blocca: l’isolamento, la solitudine. Come ci chiamavano, a casa? Giovani forti, sicuri e decisi. Avremmo mai immaginato di dover affrontare tanta solitudine? Nessuno ci crederebbe. Anton, amico mio, che ti succede? A ovest, a neanche tre ore di volo, vive Aleksandr Vassilevic, un brav’uomo con un gran cervello. A est c’è Pashka, un amico allegro e fedele, che è stato a scuola con te per sette anni. E solo una depressione temporanea, Anton. Peccato, credevamo che avessi più resistenza. Che sgobbata. Ti capiamo. Perché non torni a casa, sulla Terra, ti ristabilisci occupandoti di ricerca teoretica, poi si vedrà…