Выбрать главу

Rumata balzò in piedi, si tolse la camicia da notte fittamente ricamata e slacciò rumorosamente le spade appese sopra la testiera del letto. Il ragazzo si rannicchiò cautamente dietro una sedia. Rumata si esercitò all’attacco e alla difesa per dieci minuti, poi appoggiò le spade al muro, si chinò sulla vasca vuota e ordinò l’acqua. Era piuttosto scomodo lavarsi senza sapone, ma ormai ci si era abituato. Il ragazzo raccoglieva l’acqua con il mestolo e gliela versava sulla schiena, sul collo e sulla testa, un mestolo dopo l’altro. Intanto continuava a borbottare: «Dappertutto ci si comporta come esseri umani, sciocchezze raffinate. Ma quando mai? Lavarsi con due secchi d’acqua? Tutti i giorni un asciugamano pulito… E Sua Signoria che tutte le mattine salta su nudo con due spade senza neanche aver detto le preghiere…»

Rumata si asciugò vigorosamente dicendo in tono autoritario: «Sono un membro della corte, non un barone pidocchioso. Un cortigiano dev’essere sempre pulito e profumato».

«Sua Altezza Reale non vi annusa mica» ribatté il ragazzo. «Lo sanno tutti che Sua Altezza prega giorno e notte per noi peccatori. E Don Reba, lui non si lava mai. Lo so per certo, me lo ha detto il suo servo».

«Va bene, non preoccuparti» disse Rumata infilando la maglietta. Il ragazzo lo guardava costernato. Ormai da un po’ di tempo ad Arkanar circolavano pettegolezzi tra i servi. Ma Rumata non poteva farci niente. Mentre si infilava le mutande, il ragazzo si voltò dall’altra parte, muovendo le labbra come per scacciare lo spirito dell’impurità.

«Eppure non sarebbe una cattiva idea lanciare la moda della biancheria intima» pensò Rumata. Ma quelle innovazioni avrebbero potuto essere introdotte solo con la collaborazione del gentil sesso. E anche in questo campo, sfortunatamente, lui si distingueva per la sua raffinatezza. Piuttosto scomoda per una spia. Per un cavaliere, un uomo di mondo, un conoscitore dell’etichetta di corte, un dignitario inviato nelle province e abituato a battersi in duello e a sistemare faccende di cuore, avere una ventina di amanti era una cosa normale. Rumata si sforzava eroicamente di mantenersi all’altezza di quell’aspettativa, e metà dei membri della sua agenzia, invece di dedicarsi a cose più serie, faceva circolare le voci più spregevoli. Voci intese a destare l’invidia e la delizia dei giovani della Guardia di Arkanar. Si diceva che decine di signore estasiate o deluse a cui Rumata faceva visita fino a tarda notte, recitando loro poesie (terza notte di veglia: un bacio fraterno sulla guancia della signora, un gran salto oltre la balaustra del balcone, giù in braccio al comandante delle sentinelle che lo conosceva bene), decine di signore cercavano di superarsi l’un l’altra con i racconti della classe straordinaria di quel vero cavaliere. Rumata sfruttava per i suoi scopi la vanità di quelle donne, depravate fino a essere ripugnanti.

Comunque non si parlava mai della sua biancheria.

Con i fazzoletti era stato tutto molto più semplice. In occasione di un ballo aveva estratto dal taschino del panciotto un elegante fazzoletto di seta con cui si era asciugato ostentatamente le labbra. Al ballo successivo i giovani si asciugavano il viso sudato con scampoli di tessuti piccoli o grandi, di vari colori, vivacemente ricamati e con tanto di monogramma. Nel giro di un mese gli uomini facevano a gara nel drappeggiarsi vere e proprie lenzuola attorno al braccio, trascinandone elegantemente gli angoli dietro di sé…

Rumata infilò i calzoni verdi e una camicia bianca di batista con il colletto alto appena stirato.

«Visitatori?» chiese al ragazzo.

«Il barbiere la sta aspettando. E due signori l’attendono in salotto. Don Tameo e Don Sera. Mi hanno detto di portare del vino, e stanno litigando. Aspettano di fare colazione con lei».

«Va’ a chiamare il barbiere. Di’ a quei signori che li raggiungerò presto. Ma non essere sgarbato con loro, hai capito? Devi essere sempre gentile».

La prima colazione non fu molto ricca, e lasciò spazio a un pranzo. Insieme a un arrosto molto speziato furono servite orecchie di cane marinate nell’aceto. Bevvero vino frizzante irukano, il denso rosso estoriano e il bianco di Soan. Disossando abilmente un cosciotto d’agnello con l’aiuto di due pugnali, Don Tameo cominciò a lagnarsi della temerarietà crescente delle classi inferiori. «Presenterò le mie lamentele alle più alte autorità» dichiarò. «La nobiltà pretende che alla plebe, ai contadini e agli artigiani venga proibito di farsi vedere nei luoghi pubblici e per la strada. Che usino i cortili e le entrate di servizio. Nelle situazioni in cui la loro presenza non può essere evitata, ad esempio per la consegna di pane, carne o vino, devono avere un permesso speciale del ministro per la Protezione della Corona».

«Che mente geniale!» Don Sera parlava con entusiasmo, spruzzando generosamente l’aria di saliva e sugo. «Ma ieri sera, a Corte…» E riferì l’ultimo pettegolezzo. La favorita attuale di Don Reba, la dama di compagnia Okana, aveva calpestato sbadatamente il piede malato del Re. Sua Altezza era andato su tutte le furie e si era rivolto a Don Reba, ordinandogli di assegnare alla malcapitata una punizione esemplare. Al che Don Reba, senza batter ciglio, aveva risposto: «Sarà fatto, Vostra Altezza! Stanotte stessa».

«Ho riso tanto che mi si sono staccati due bottoni dal panciotto!» disse Don Sera, piegando indietro la testa.

«Protoplasma» pensò Rumata. «Sei solo un blocco di protoplasma che mangia, digerisce e si riproduce».

«In effetti, signori» disse «Don Reba è davvero un uomo molto, molto intelligente».

«Oh! Oh!» esclamò Don Sera. «Di più: è un luminare, un intellettuale!»

«Uno statista eccezionale» aggiunse Don Tameo enfaticamente, con aria da esperto.

«È davvero strano» continuò Don Rumata sorridendo affabilmente «se si pensa a quello che si diceva di lui soltanto un anno fa. Don Tameo, ricordate le vostre battute di spirito sulle sue gambe storte?»

Don Tameo stava sorbendo un bicchierino di vino irukano, che gli andò quasi di traverso.

«Non ricordo affatto» brontolò. «E poi non sono un uomo spiritoso…»

«Se ne ricorderà senz’altro» disse Don Sera, scuotendo la testa in segno di rimprovero.

«È così, infatti!» insistette Rumata. «Era presente anche lei, Don Sera! Ricordo benissimo come rideva alle battute di Don Tameo. Rideva così di gusto che le si scucì qualcosa dal vestito».

Don Sera divenne di tutti i colori e cominciò a presentare giustificazioni prolisse e confuse. Stava mentendo spudoratamente. Don Tameo si era incupito e immusonito.

Si dedicò con tutto il cuore al vino estoriano e siccome, a sentir lui, aveva cominciato da due settimane e fino a quel momento non era stato capace di smettere, quando alla fine si alzarono da tavola dovette essere sorretto dagli altri due.

Era una piacevole giornata di sole. Il popolino si radunava nelle strade a bocca aperta come se ci fosse qualcosa da vedere. I ragazzini fischiettavano e schiamazzavano tirandosi manciate di fango. Massaie con la cuffietta stavano alla finestra. Servette impudenti lanciavano languide occhiate. L’umore di Don Sera cominciò a migliorare. Fece lo sgambetto a un contadino, sbellicandosi poi nel vederlo cadere nel fango. Don Tameo si accorse improvvisamente di aver indossato il fez con lo stemma delle due spade al contrario. Gridò: «Ferma!» e si tolse il fez reggendolo alto, tentando di girargli di sotto con il corpo. Dal panciotto di Don Sera si staccò di nuovo qualcosa. Rumata fermò una graziosa servetta che passava, le tirò un orecchio e la pregò di rimettere a posto il copricapo di Don Tameo. Intorno ai tre signori si radunò una folla di curiosi, tutti molto solleciti nel dare consigli alla ragazza, che era diventata rossa come un pomodoro. Intanto dal panciotto di Don Sera continuavano a staccarsi bottoni, fibbie e gancetti. Alla fine, quando ripresero il cammino, Don Tameo ritrovò il coraggio di aggiungere una precisazione alla sua lamentela, mettendo in rilievo la necessità di tenere a debita distanza dai contadini e dal popolino gli esseri graziosi di sesso femminile.