Un carro carico di vasi di terracotta ostruiva la strada. Don Sera sguainò entrambe le spade, dichiarando che era sconveniente e indegno di tre signori dover girare attorno a dei vasi, e che era sua intenzione aprirsi la via attraversando il carro. Ma mentre cercava di prendere la mira e di distinguere dove finiva il muro e dove cominciavano i vasi, Rumata afferrò i raggi delle due ruote e girò il carro, sgomberando la strada.
La folla, che aveva assistito a bocca aperta, cominciò ad applaudire. I signori stavano per riprendere il cammino quando da una finestra al secondo piano apparve la testa brizzolata di un mercante, il quale tuonava contro la maleducazione dei cortigiani, a cui la nostra aquila illuminata, Don Reba, avrebbe posto presto rimedio.
Naturalmente dovettero fermarsi un’altra volta per trasferire tutto il carico di vasi dentro la finestra. Rumata salvò l’ultimo vaso, vi gettò dentro due monete d’oro con l’effigie di Pitz Sesto e lo diede al proprietario del carro, allibito.
«Quanto gli ha dato?» chiese poi Don Tameo.
«Oh, non vale la pena di parlarne» rispose Rumata con un’alzata di spalle. «Due monete d’oro».
«Per la gobba di san Michele!» esclamò Don Tameo. «Ha davvero del denaro! Se vuole le vendo il mio stallone camalariano!»
«Preferirei vincerlo agli astragali» disse Rumata.
«Splendido!» gridò Don Sera fermandosi di colpo. «Giochiamo!»
«Qui?» chiese Rumata.
«Perché no?» disse Don Sera. «Non vedo perché tre gentiluomini non possano giocare agli astragali quando ne hanno voglia».
Improvvisamente Don Tameo inciampò, cadendo lungo disteso nel fango. Anche Don Sera incespicò e cadde.
«Oh, mi ero completamente dimenticato che ora dovremmo entrare in servizio»
disse.
Rumata li rimise in piedi e li guidò tenendoli per il braccio, fermandosi davanti al palazzo tetro di Don Satarina.
«Dovremmo fargli visita» suggerì.
«Certo, non vedo perché tre gentiluomini non potrebbero andare a trovare Don Satarina» disse Don Sera.
Don Tameo aprì gli occhi.
«Essendo al servizio del re» riuscì a dire faticosamente «dovremmo tutti guardare al futuro. D-d-don Satarina… è già una reliquia del passato. Avanti, signori! Devo andare al mio posto di guardia!»
«Avanti!» ripeté Don Rumata.
Don Tameo lasciò cadere la testa sul petto; non si svegliò per un bel pezzo. Don Sera, facendo schioccare le dita, cominciò a parlare dei suoi innumerevoli successi amorosi. Giunsero a palazzo ed entrarono nella sala delle guardie, dove Rumata, con grande sollievo, fece sdraiare Don Tameo su una panca. Don Sera, da parte sua, si sedette, allontanò con un gesto superbo del braccio una pila di ordinanze firmate dal re e dichiarò che era venuto finalmente il momento di bersi un bicchiere di vino irukano ghiacciato. Disse che il padrone doveva portarne un barilotto e che quelle zitelle (indicando gli ufficiali in servizio che stavano giocando a carte a un altro tavolo) avrebbero dovuto unirsi a loro per un brindisi. Venne il comandante della guardia. Squadrò Don Tameo e Don Sera. E dopo che Don Sera gli ebbe chiesto: «Perché tutti i fiori appassiscono al riparo della mia solitudine?» concluse che non avrebbe avuto senso mandarli al loro posto di guardia in simili condizioni; sarebbe stato meglio lasciarli per un po’ dov’erano.
Rumata gli vinse una moneta d’oro e scambiò con lui quattro chiacchiere sui nuovi nastri delle uniformi e sul modo migliore di lucidare le spade. Poco dopo disse che pensava di fare una visita a Don Satarina, che a quanto si sapeva possedeva delle ottime mole, e sembrò visibilmente contrariato quando gli dissero che il nobiluomo aveva ormai perso la ragione.
Raccontavano che un mese prima aveva rilasciato tutti i prigionieri, sciolto la guardia del corpo e ceduto allo Stato il suo ricco arsenale di strumenti di tortura. A centodue anni il vecchio aveva dichiarato che ormai aveva intenzione di dedicarsi alle opere buone. Probabilmente non gli restava molto da vivere.
Rumata prese commiato dal comandante e lasciò il palazzo, andando verso il porto.
Doveva evitare le pozzanghere e saltare i solchi delle ruote pieni di acqua verdastra.
Senza scomporsi allontanava dal suo cammino i fannulloni, ammiccava alle ragazze, che sembravano molto colpite dal suo aspetto, si inchinava alle dame che si facevano trasportare nelle portantine, salutava i conoscenti e ignorava deliberatamente gli Sturmovik Grigi.
Fece una piccola deviazione per dare un’occhiata alla Scuola dei Patrioti. La scuola era stata fondata due anni prima con il patrocinio di Don Reba in persona per addestrare i figli dei mercanti e dei piccolo-borghesi destinati a diventare sottufficiali o a entrare nell’amministrazione. Era un edificio di pietra senza colonne o fregi. Le mura spesse avevano finestre piccole e simili a feritoie, e ai lati dell’entrata si ergevano due torri semicircolari. Se necessario, là dentro ci si poteva asserragliare.
Rumata salì una stretta scala a chiocciola che portava al secondo piano, facendo risuonare gli speroni. Per andare verso l’ufficio del procuratore della scuola doveva passare davanti alle aule, da cui proveniva un ronzio monotono e uniforme di risposte date all’unisono. «Com’è il nostro Re?» «Una persona sublime» «Come sono i nostri ministri?» «Leali e senza spirito di contraddizione» «E Dio, il Creatore, parlò: ‘Io maledico’. Ed Egli maledì…» «‘…e al secondo squillo di tromba, formate una catena a due a due, tenendovi pronti a colpire con le lance…’ ‘…nel caso in cui il torturato perda i sensi, sospendere immediatamente la tortura…’««La scuola» rifletté Rumata. «La culla del sapere, il perno della cultura…» Senza bussare, aprì la porta ed entrò nell’ufficio. Era buio e freddo come una cripta. Dietro una scrivania enorme ingombra di carte e di sferze si alzò in piedi un uomo alto e ossuto. Era calvo e con gli occhi infossati, e sull’uniforme grigia coperta di passamanerie intrecciate spiccavano le spalline del ministro della Sicurezza. Era il procuratore della Scuola dei Patrioti, l’esimio Padre Kin, sadico, assassino e monaco allo stesso tempo, autore del Trattato sulle denunce, che aveva attirato l’attenzione di Don Reba.
«Ebbene, come vanno le cose qui?» chiese Don Rumata con un sorriso benevolo.
«Le persone istruite… Certe le ammazziamo, altre le indottriniamo, eh?»
Padre Kin sorrise beffardo.
«Non tutte le persone istruite sono da considerare nemiche della corona» disse. «I nemici del Re sono i sognatori, gli scettici e i dissidenti sleali! Mentre qui il nostro compito…»
«Certo, certo» disse Rumata. «Le credo. State scrivendo qualcosa di nuovo? Ho letto il suo trattato. Un’opera utile, ma stupida. Come può pensare certe cose? Da dove le vengono certe idee? Non è un bene, mio caro… procuratore, vero?»
«Io non mi vanto di essere particolarmente intelligente o saggio» rispose Padre Kin con dignità. «Il mio unico scopo è il bene dello Stato. Non abbiamo bisogno di persone intelligenti. Abbiamo bisogno di lealtà. E…»
«Basta, basta. Va bene. Allora, state scrivendo qualcosa di nuovo?»
«Ho intenzione di presentare al ministro un abbozzo del Nuovo Stato perché lo esamini. Ho preso a modello il Regno del Sacro Ordine».
Rumata era allibito. «Intendete farci diventare tutti monaci?»
Padre Kin giunse le mani e si chinò in avanti.
«Permettetemi, signore, di spiegarmi meglio» disse con tono emozionato, leccandosi le labbra. «Il nocciolo della questione consiste in qualcos’altro. Il nodo della questione consiste nei pilastri fondamentali del Nuovo Stato. E questi sono relativamente semplici. Sono solo tre: fede cieca nell’infallibilità della legge; sottomissione assoluta alla legge; e infine, controllo costante di tutti su tutti».