«Sì» pensò Rumata. «Abbiamo già tentato questi esperimenti. Ipno-induzione di massa, rimoralizzazione positiva, esposizione a radiazioni ipnotiche da satelliti equatoriali…» «Questa è un’alternativa più accettabile» disse. «Ma come potrei giustificarmi per aver privato l’umanità della sua storia? Che senso ha sostituire un tipo d’uomo con un altro? Non significherebbe annientare quest’umanità e crearne al suo posto un’altra?»
Budach aggrottò la fronte e restò zitto, assorto nei propri pensieri. Dalla strada continuava a venire il cigolio triste dei carri. Improvvisamente, Budach disse: «Allora, Signore, annientaci e ricreaci di nuovo, creaci migliori questa volta, più perfetti. Oppure, meglio ancora, lasciaci come siamo, ma ordina che possiamo seguire la nostra strada!»
«Il mio cuore è pieno di dolore» disse lentamente Rumata «ma questo non è in mio potere».
E all’improvviso si accorse degli occhi di Kyra, fissi su di lui con grande intensità.
Nel suo sguardo lesse la paura e la speranza.
Capitolo IX
Rumata accompagnò Budach in camera da letto perché si riposasse in previsione del lungo viaggio, poi andò nel suo studio. La Sporamina aveva esaurito il suo effetto e si sentiva esausto; le ferite ricominciavano a fargli male, e i polsi, che continuavano a bruciargli a causa delle corde, si stavano gonfiando. «Dovrei distendermi e dormire un po’«si disse. «Devo solo dormire un po’, e poi mettermi in contatto con Don Kondor. Dovrei anche comunicare con i Controlli e far loro riferire tutto al comando.
Dobbiamo decidere cosa fare, adesso, sempre che ci resti qualcosa da fare. E come comportarci nel caso non ci sia niente da fare».
Entrando nello studio vide un monaco nero seduto alla scrivania, con il cappuccio calato sugli occhi. Era chino in avanti e teneva le braccia nascoste nelle ampie maniche.
«Che ci fa qui?» chiese Rumata, stanchissimo. «Chi l’ha fatta entrare?»
«I miei rispetti, nobile Don Rumata» disse il monaco, tirando indietro il cappuccio.
Rumata scosse piano la testa.
«Che Dio mi fulmini!» disse. «Salute, mio buon Arata. Cosa l’ha spinta a venire qui? Cos’è successo?»
«Il solito» rispose Arata. «L’esercito si è ribellato, gli uomini si stanno dividendo le terre e nessuno vuole andare a sud. Il Duca sta radunando i superstiti e non ci vorrà molto perché cominci a impiccare i miei contadini per i piedi lungo il confine con Estor. Tutto come al solito» ripeté.
«Capisco» disse Rumata.
Si gettò sul divano appoggiando la testa sulle braccia incrociate e osservò l’ospite.
Vent’anni prima, quando Anton costruiva modellini con il suo montatore e giocava a Guglielmo Tell sulla Terra, l’uomo era conosciuto come Arata il Bello ed era una persona completamente diversa.
A quel tempo Arata il Bello non aveva ancora l’orribile cicatrice sulla fronte. Se l’era procurata nell’ammutinamento dei marinai di Soan: tremila lavoratori nudi e schiavizzati raccolti da tutto il regno per lavorare ai moli di Soan e così abbrutiti da aver perso ogni volontà di sopravvivenza. Una notte erano usciti dalla zona del porto e avevano attaccato la città, lasciandosi dietro solo cadaveri e incendi. Alla fine erano stati accerchiati dalla fanteria imperiale corazzata.
A quel tempo, naturalmente, Arata aveva ancora due occhi sani. Aveva perso il destro per la randellata di un barone, quando un esercito di ventimila contadini aveva deciso di invadere la capitale per stanare le bande di baroni e aveva incontrato invece la guardia imperiale, forte di cinquemila uomini, in campo aperto. Erano stati divisi in piccoli gruppi, circondati e massacrati dai ferri chiodati dei cammelli…
A quel tempo Arata il Bello era ancora dritto come un pioppo. Gli era venuta la gobba (e con essa aveva cambiato soprannome) dopo la battaglia nel ducato di Uban, oltre oceano, quando, dopo sette anni di peste e siccità, quattrocentomila scheletri viventi avevano preso forche e bastoni, cacciato i nobili e assediato il Duca di Uban nel suo palazzo. Il Duca, la cui debole mente si era immediatamente vivacizzata grazie al terrore, si era dichiarato disposto a perdonare i suoi sottoposti, ad abbassare il prezzo delle bevande alcoliche e a promettere la libertà ai servi della gleba. Arata, vedendo che tutto era perduto, aveva implorato i ribelli di non inghiottire quell’esca traditrice; ma era stato catturato dagli Atamani, che pensavano che da un uomo buono non ci si doveva aspettare niente di buono. Lo avevano picchiato con verghe di ferro e gettato in un pozzo per lasciarvelo morire di una morte atroce.
Quanto al pesante anello di ferro che ancora portava al polso destro, risaliva probabilmente al tempo in cui era chiamato il Bello. L’anello era stato forgiato in fondo a una catena attaccata al timone di una nave pirata, ma Arata aveva spezzato la catena, colpito alla tempia il capitano Ega il Grazioso, catturato prima la nave e poi l’intera flotta del pirata. Quindi aveva cercato di fondare una repubblica libera sull’oceano. L’impresa era finita in un bagno di sangue, perché a quel tempo Arata era un giovane che non aveva ancora imparato a odiare e che pensava che il dono della libertà bastasse a trasformare uno schiavo in una creatura divina.
Era un ribelle di professione, un vendicatore per grazia di Dio, una figura che non si incontra spesso nel medioevo. Tuttavia l’evoluzione storica di tanto in tanto crea simili lucci, e li immette nei gorghi profondi della società perché incalzino le grasse carpe che dormono sognando nel fango degli abissi. Arata era la sola persona lì che Rumata non odiasse o compiangesse. E il terrestre, che aveva trascorso quasi cinque anni tra il sangue e il sudiciume, nei suoi sogni inquieti si vedeva come una specie di Arata. Aveva attraversato i tormenti più infernali e ne aveva ricevuto in cambio il privilegio di massacrare gli assassini, torturare gli aguzzini, tradire i traditori.
«A volte mi sembra che siamo tutti impotenti» disse Arata. «Rimango sempre il capo degli ammutinati, e capisco che la mia forza si basa sulla mia straordinaria vitalità. Ma la forza non mi aiuta nella mia impotenza. Come per magia, le mie vittorie si tramutano in sconfitte. I miei alleati in battaglia diventano miei nemici, i più coraggiosi mi abbandonano, i più fedeli mi tradiscono o muoiono. E non mi resta nulla, solo le mani nude. Ma non si possono conquistare gli idoli d’oro dietro le mura delle fortezze, a mani nude…»
«Come è arrivato ad Arkanar?»
«Con i monaci».
«Pazzo! È così facile riconoscerla».
«Non ho detto in mezzo ai monaci. Della folla di ufficiali del Sacro Ordine, quasi la metà è fatta di giullari di Dio e di storpi come me. I deformi sono una vista piacevole per gli occhi di Dio». Guardò fisso Rumata e scoppiò a ridere.
«Cosa intende fare, adesso?» chiese Rumata abbassando gli occhi.
«Il solito. Conosco il Sacro Ordine. Prima della fine dell’anno il popolo di Arkanar si armerà e uscirà dalle sue tane, facendosi a pezzi con le asce. Lo guiderò, in modo che gli uomini non si scannino a vicenda, ma scannino solo quelli che lo meritano».
«Le serve denaro?»
«Sì, come al solito. E armi…» Tacque. Poi socchiuse gli occhi, dicendo: «Don Rumata, ricorda come sono rimasto deluso quando ho scoperto chi era lei in realtà?
Odio i frati, e mi dà fastidio quando la loro rete di bugie risulta essere la verità. Ma sfortunatamente un povero ribelle è costretto ad approfittare di tutte le circostanze. I preti dicono che gli dèi hanno a loro disposizione i fulmini… Don Rumata, ho bisogno urgente di questi fulmini, per abbattere le mura delle fortezze».
Rumata sospirò profondamente. Dopo il suo salvataggio miracoloso, Arata non aveva mai smesso di chiedere spiegazioni. Rumata una volta aveva anche cercato di parlargli di sé, gli aveva anche mostrato il Sole del suo pianeta nel cielo notturno: una stella minuscola, difficilmente individuabile. Ma il ribelle capiva una cosa sola: quei preti maledetti avevano ragione, oltre le mura del firmamento vivevano davvero gli dèi, dèi onniscienti e onnipotenti. E da quel momento in poi ogni conversazione con Rumata arrivava sempre alla stessa conclusione: Dio, poiché esisti, dammi la tua forza, perché è la cosa migliore che puoi fare per me. E ogni volta Rumata non rispondeva o cambiava discorso.