«Amici!» disse infine il dottor Budach con voce sonora. Si alzò in piedi e cadde subito sulle spalle di Rumata.
Rumata lo circondò cautamente con un braccio.
«Pronto?» chiese Don Kondor.
«Non si sveglierà fino a domani mattina» disse Rumata. Prese Budach in braccio e lo portò sul pagliericcio di Padre Kabani.
Padre Kabani, geloso, disse: «Vi preoccupate del dottore ma vi dimenticate del vecchio Kabani, signori!»
«Ho solo un quarto d’ora» disse Don Kondor.
«Mi bastano cinque minuti» rispose Rumata. Non riusciva quasi a nascondere la propria irritazione. «E ve ne ho già parlato così a lungo che basterà anche solo un minuto. In completo accordo con la teoria di base del feudalesimo» guardò furioso Don Kondor negli occhi «questo è solo un normale confronto tra borghesi e baroni»
guardò Don Hug «che però si è sviluppato in un intrigo del Sacro Ordine, e alla fine ha fatto di Arkanar una roccaforte dell’aggressione feudale-assolutista.
Siamo seduti qui e ci spremiamo le meningi cercando di accomunare la figura complicata, contraddittoria ed enigmatica dell’Aquila Illuminata, Don Reba, a quella di personalità storiche della stessa statura: Richelieu, Oliver Necker, Tokugawa e il Monaco. E la nostra aquila si rivela solo un piccolo mascalzone insignificante. Ha tradito e venduto tutto ciò su cui ha potuto mettere le mani, si è invischiato nella rete dei suoi stessi intrighi, è stato sopraffatto da un terrore mortale e poi ha cercato di salvarsi la pelle mettendosi nelle mani del Sacro Ordine. Aspettate solo sei mesi: a lui taglieranno la gola, ma l’Ordine resterà. Non oso immaginare con quali conseguenze per le regioni costiere e infine per il regno intero. Comunque un fatto è certo: il lavoro di vent’anni è andato perduto. Con ogni probabilità il dottor Budach è l’ultima persona che potrò salvare. Non salveremo nessun altro: è troppo tardi. Questo è tutto quello che ho da dire».
Don Hug spezzò in due il ferro e lo gettò in un angolo.
«È davvero un problema, questo è certo» disse. «Ma forse la situazione non è così nera come tu la vedi, Anton».
Rumata lo guardò per un momento.
«Avreste dovuto rimuovere Don Reba» disse improvvisamente Don Kondor.
«In che senso ‘rimuovere’?»
Il viso di Don Kondor si riempì di chiazze rosse. «In senso fisico!» rispose seccamente.
Rumata si sedette. «Ucciderlo?»
«Sì! Sì! Sì! Rapirlo! Eliminarlo! Schiacciarlo! Ucciderlo! Avrebbe dovuto agire, non stare a discutere del problema con due idioti che non avevano la minima idea di quello che stava succedendo».
«Neanch’io l’avevo!»
«Ma almeno se n’era accorto».
Ci fu un silenzio imbarazzato.
Poi Don Kondor ricominciò. Parlava piano, guardando il vuoto. «Una cosa sul tipo del massacro di Barkan?»
«Sì, più o meno. Solo meglio organizzata».
Don Kondor si morse le labbra. «Sarebbe troppo tardi, ora, per eliminarlo dalla scena?»
«Completamente inutile» disse Rumata. «Primo, lo faranno fuori comunque, con o senza la nostra assistenza; secondo, non sarà neppure necessario. Mi segue come un cagnolino».
«Che significa?»
«Ha paura di me. Sente che dietro di me c’è una potenza misteriosa. Ha suggerito addirittura di collaborare».
«Davvero?» borbottò Don Kondor. «Allora non ne vale la pena».
Don Hug non resisteva più. «Compagni, che vi succede, parlate seriamente?»
«Come?»
«Insomma, tutto questo… rimuoverlo, farlo fuori… Che vi ha preso, siete impazziti?»
«Il signore ci ha punti sul vivo!» osservò piano Rumata. Don Kondor pesò accuratamente le parole.
«In casi eccezionali funzionano solo mezzi eccezionali!»
Don Hug guardò prima l’uno e poi l’altro; le labbra gli tremavano.
«Davvero… Davvero sapete in cosa vi state cacciando?» Non trovava le parole.
«Capite a cosa potrebbe portare?»
«Per favore, calmatevi» disse Don Kondor. «Non succederà niente. Ora basta.
Cosa facciamo con il Sacro Ordine? Suggerisco di mettere dei posti di blocco nella zona intorno ad Arkanar. Qual è la vostra opinione, compagni? Veloci, per favore, ho fretta».
«Opinioni non ne ho, non ancora» rispose Rumata. «E neppure Pashka. Dovremo parlare con i Controlli. Aspettiamo un po’. Ci incontreremo di nuovo fra una settimana e poi prenderemo una decisione».
«D’accordo» disse Don Kondor, e si alzò in piedi. «Andiamo!»
Rumata si prese Budach in spalla e lasciò la capanna. Don Kondor faceva luce con una lanterna. Salirono sull’elicottero e Rumata distese Budach sul sedile posteriore.
Don Kondor s’impigliò con il piede nel mantello e cadde sul sedile del pilota con un tintinnare di spade.
«Non potreste riportarmi subito a casa?» chiese Rumata. «Devo dormire un po’«.
«Sì, sì» brontolò Don Kondor. «Sbrigatevi, eh!»
«Torno subito» disse Rumata, e corse nella capanna.
Don Hug era ancora seduto al tavolo, e guardava fisso davanti a sé stropicciandosi il mento. Padre Kabani, in piedi accanto a lui, disse: «Va sempre a finire così, amico mio. Ci si batte con le unghie e con i denti, si cerca di fare meglio che si può, ma alla fine va sempre male…»
Rumata prese svelto le spade e il fez.
«Dai, Pashka» disse a Don Hug. «Tirati su, siamo tutti sfiniti e irritabili».
Don Hug scosse la testa con energia.
«Anton, per piacere! Non dico niente di zio Sasha, è qui da tanto e non può più cambiare. Ma tu…»
«Adesso voglio dormire, solo questo. Padre Kabani, per favore, porti i miei cavalli dal barone Pampa. Andrò a trovarlo fra pochi giorni».
L’elicottero cominciò a rombare piano. Rumata salutò e corse fuori. La luce dei fari dell’elicottero rendeva spettrali i grovigli di felci giganti contro i tronchi candidi delle betulle. Rumata salì a bordo e chiuse lo sportello. Nella cabina c’era odore di ossigeno, di pannelli sintetici e d’acqua di colonia.
Don Kondor fece decollare l’apparecchio e lo guidò con sicurezza indifferente lungo il sentiero. «Io non ci riuscirei, adesso» pensò Rumata, un po’ geloso. Sul sedile posteriore russava placidamente il dottor Budach.
«Anton» disse Don Kondor. «Vorrei… Cioè, non… Non voglio essere invadente, e mi creda, non voglio interferire con le sue faccende personali…»
«La ascolto» disse Rumata. Sapeva già dove l’altro voleva andare a parare.
«Noi qui siamo in missione» disse Don Kondor. «Tutto quel che amiamo deve restare sulla Terra, oppure chiuso dentro di noi. In questo modo non ci può essere tolto o usato per ricattarci».
«Vi state riferendo a Kyra?»
«Sì, amico mio. Se metà di quello che mi hanno detto di Don Reba è vero, allora trattenerlo non sarà né facile, né privo di pericoli. Capite?»
«Sì, capisco. Cercherò di escogitare qualcosa».
Distesi l’uno accanto all’altra al buio, si tenevano per mano. In città ormai era tutto tranquillo. Si sentiva solo qualche cavallo che nitriva e scalpitava lontano. Ogni tanto Rumata cadeva in un sonno leggero, ma si svegliava subito. Allora Kyra tratteneva il respiro; nel sonno lui le stringeva forte la mano.
«Sei molto, molto stanco» disse piano lei. «Vai a dormire, ti prego».
«No, no, dimmi tutto, ti ascolto».
«Continui ad addormentarti, caro».
«Ti ascolto lo stesso. Hai ragione, sono stanchissimo, ma desidero ancora di più starti vicino e ascoltarti. Non dormirò, continua a raccontare, ti ascolto».
Lei strofinò il naso contro la sua spalla, lo baciò sulla guancia e ricominciò a raccontare. Poco tempo prima il figlio del vicino di suo padre una sera era andato da lei. «Tuo padre è immobilizzato a letto. Lo hanno cacciato dall’ufficio e lo hanno battuto con le verghe come regalo d’addio. Non mangia quasi più, beve soltanto. È diventato pallido e cianotico, ha la tremarella». Il ragazzo le aveva anche detto che suo fratello era ricomparso, ferito ma felice e ubriaco, con un’uniforme nuova. Aveva dato un po’ di soldi a suo padre, aveva bevuto con lui e poi aveva minacciato di ucciderli tutti. Adesso era tenente, chissà dove, in un distaccamento speciale, aveva giurato fedeltà al Sacro Ordine e stava per essere fatto cavaliere. Suo padre la implorava di non tornare a casa, almeno per il momento. Suo fratello la minacciava continuamente di sconfessarla, perché lei, la strega con i capelli rossi, si era messa con un nobile…