E come lo bevo! Giorno e notte. Sono tutto gonfio. E va sempre peggio. L’altro giorno mi sono guardato allo specchio. Don Rumata, non ci crederebbe: mi sono spaventato. Ho guardato meglio… Che il buon Dio mi protegga! Che cosa è rimasto di Padre Kabani? Un mostro marino, un polipo, pieno di macchie colorate, rosse e blu… Dicono che il combustibile sia stato inventato per fare dei bei giochi con il fuoco…»
Il vecchio sputò sul pavimento, sfregandovi poi sopra la scarpa. Improvvisamente chiese: «Che giorno è oggi?»
«La vigilia di Kata il Giusto».
«E perché non c’è il sole?»
«Perché è notte».
«Di nuovo» disse dolorosamente Padre Kabani, cadendo con il viso nelle bietole.
Rumata restò a guardarlo per un po’, fischiettando piano tra i denti. Poi si alzò e andò verso il portico retrostante. In uno stambugio tra mucchi di bietole e di segatura brillavano i tubi di vetro del distillatore di Padre Kabani. Era la creazione stupefacente di un ingegnere nato e di un maestro vetraio. Il giovane girò due volte intorno alla macchina diabolica, poi, al buio, afferrò un pezzo di ferro e cominciò a colpire a casaccio, senza mirare a niente in particolare. Si sentì il rumore dei vetri rotti, del metallo e dei liquidi che sgorgavano. L’odore di alcol fermentato pervase la stanzetta. Mentre Rumata andava ad accendere la luce, i vetri rotti scricchiolarono sotto i suoi piedi. Nell’angolo c’era una grossa cassaforte che conteneva un sintetizzatore Mida. La liberò dai detriti, compose la combinazione e l’aprì. Anche con la luce elettrica, il sintetizzatore faceva uno strano effetto in mezzo ai rifiuti.
Rumata prese una manciata di segatura e la gettò nell’alimentatore. Subito la macchina cominciò a ronzare, e l’indicatore si regolò automaticamente. Con la punta dello stivale, l’uomo spinse un secchio arrugginito sotto l’apertura del sintetizzatore. E in un batter d’occhio caddero nel secchio ammaccato, tintinnando, ducati d’oro, le monete con il profilo aristocratico di Pitz Sesto, Re di Arkanar.
Rumata adagiò il vecchio su un pagliericcio scricchiolante, gli tolse le scarpe, lo voltò sul fianco destro e lo coprì con la pelliccia spelacchiata di un animale morto da chissà quanto. Ogni tanto Padre Kabani si svegliava. Non riusciva a muoversi né a pensare. Così si limitava a recitare qualche verso di una romanza proibita. «Son come purpureo fior nella tua cara manina…» Infine cadde in un sonno profondo.
Rumata sgombrò il tavolo, pulì il pavimento e anche l’unica finestra che c’era, annerita dalla sporcizia accumulatasi durante gli esperimenti di chimica che Padre Kabani conduceva sul davanzale. Dietro la stufa in sfacelo trovò una bottiglia di alcol, che rovesciò in un buco. Poi diede da bere al suo cavallo, gli diede l’avena che aveva nella bisaccia, si lavò le mani e il viso e si sedette ad aspettare. Fissava la fiammella della lampada a olio.
Da sei anni conduceva quella strana doppia vita, e ormai sembrava essersi abituato.
Solo qualche volta, come per esempio in quel momento, gli sembrava improvvisamente che dietro la bestialità organizzata, il culto deprimente dei Grigi, non ci fosse nulla. Gli sembrava che davanti ai suoi occhi si stesse svolgendo una strana azione teatrale, con lui, Rumata, nel ruolo di protagonista. E in qualunque momento, dopo una battuta particolarmente felice, sarebbe potuto scrosciare l’applauso, e gli esperti, gli amanti dell’arte dell’Istituto di Storia Sperimentale, avrebbero gridato entusiasti dai loro palchi: «Bravo, Anton, grande! Fantastico!
Bravo, Toshka!» Si guardò intorno. Non c’era nessun teatro, solo i muri umidi e ammuffiti di tronchi rozzamente sbozzati, anneriti dal fumo della lampada.
Fuori, il cavallo nitriva piano, battendo lo zoccolo sul terreno. Gradualmente sentì avvicinarsi un sibilo. Era così familiare, lo conosceva così bene e da tanto tempo che quasi gli si riempirono gli occhi di lacrime. Era un suono inaspettato, in quel luogo dimenticato da Dio.
Rumata ascoltava attentamente, con la bocca semiaperta. Improvvisamente la vibrazione cessò; la fiammella nella lampada cominciò a vacillare, poi si stabilizzò di nuovo. Rumata stava per alzarsi dalla panca quando Don Kondor emerse dal buio della notte, entrando a grandi passi nella stanza.
Don Kondor era Giudice Supremo e Custode del Gran Sigillo della Repubblica Mercantile di Soan, Vicepresidente della Conferenza dei Dodici Negoziatori e Cavaliere dell’Ordine Imperiale della Giusta Pietà.
Rumata balzò in piedi, allontanando la panca con un calcio. Avrebbe voluto abbracciare l’amico e baciarlo sulle guance, ma si inginocchiò come prescritto dall’etichetta, e gli speroni tintinnarono solennemente; fece un gesto semicircolare con la mano, dal cuore al fianco destro, e chinò la testa così velocemente che il mento quasi sparì nella sciarpa.
Don Kondor si levò il berretto di velluto ornato da una piuma e l’agitò brevemente in direzione di Don Rumata, come per scacciare una mosca. Poi gettò il berretto sul tavolo e slacciò la fibbia del mantello, che gli cadde dalle spalle mentre lui sedeva sulla panca e allungava le gambe. Teneva la sinistra sul fianco, e con la destra stringeva l’impugnatura della spada cesellata, che con la punta bucava il pavimento di legno ammuffito. Era piuttosto piccolo, snello; gli occhi grandi e un po’ sporgenti spiccavano nel viso pallido. I capelli neri erano fermati sulla fronte da un cerchietto d’oro massiccio con una pietra verde al centro, come quello di Rumata.
«È solo, Don Rumata?» chiese frettolosamente.
«Sì, signore» rispose lui, depresso.
Improvvisamente rimbombò la voce di Padre Kabani. «Nobile Don Reba! Una iena, ecco cos’è lei!»
Kondor non gli prestò attenzione. Non si voltò neppure.
«Sono venuto in elicottero» disse.
«Speriamo che nessuno l’abbia vista».
«Una leggenda in più o in meno, che differenza fa?» chiese Kondor, come infastidito. «È che non ho tempo di viaggiare a cavallo. Che è successo a Budach?
Sono preoccupato. Vuole sedersi, Don Rumata, per favore? Così mi fa venire il torcicollo».
Obbediente, Rumata si sedette sulla panca.
«Budach è scomparso» disse. «L’ho aspettato in Piazza delle Spade Pesanti. È venuto solo un vagabondo guercio che mi ha dato la parola d’ordine e una borsa piena di libri. Ho aspettato altre due ore, poi ho interpellato Don Hug, che mi ha detto di aver portato Budach fino al confine. Budach era insieme a un nobile, un uomo di fiducia, dato che aveva perso tutto a carte con Don Hug e si era venduto a lui anima e corpo. Dunque Budach dev’essere da qualche parte ad Arkanar. È tutto quello che so».
«Non è molto, direi» osservò Kondor.
«Ma la faccenda di Budach non è poi così importante. Se è ancora vivo, lo troverò e lo tirerò fuori dal suo buco. Davvero, non c’è nessun problema. Ma non è questo che volevo discutere con lei. Ancora una volta devo attirare la sua attenzione sul fatto che la situazione, ad Arkanar, sta oltrepassando i limiti della teoria basilare…»
Kondor arricciò il naso.
«No, no, ascolti» disse Rumata con decisione. «Ho la sensazione di non poter riuscire a farmi capire davvero, per radio? E ad Arkanar va tutto a rotoli! Sembra che Don Reba stia intenzionalmente scagliando il Grigiore contro gli scienziati. Chiunque si elevi anche solo di poco al di sopra del livello medio Grigio mette in pericolo la propria vita. Mi ascolti, Don Kondor! Queste non sono impressioni vaghe, emotive, sono fatti! Basta essere intelligenti e istruiti, avere qualche dubbio, dire qualcosa fuori dal comune. Forse anche solo rifiutare un bicchiere di vino può essere pericoloso. Qualunque garzone di droghiere ti può picchiare a sangue. Centinaia, migliaia di persone vengono denunciate. Vengono catturate dagli Sturmovik e appese nude a testa in giù per le strade. Soltanto ieri nella mia strada hanno ucciso un vecchio a calci: qualcuno aveva detto che sapeva leggere e scrivere. Lo hanno preso a calci per due ore, quei porci bavosi…»