Arthur C. Clarke
Stanley Kubrick
2001: Odissea nello spazio
Titolo originale: 2001 A Space Odyssey.
Traduzione di Bruno Oddera
© 1968 by Arthur C. Clarke and Polaris Productions, Inc.
© 1987 Longanesi & C., Milano.
INDICE
PREMESSA
PARTE I — NOTTE PRIMEVA
PARTE II — TMA-1
PARTE III — TRA I PIANETI
PARTE IV–L’ABISSO
PARTE V–LE LUNE DI SATURNO
PARTE VI — ATTRAVERSO LA PORTA DELLE STELLE
PREMESSA
Dietro ogni uomo oggi vivente stanno trenta spettri, poiché questo è il rapporto con il quale i morti superano il numero dei vivi. Dagli albori del tempo, grosso modo cento miliardi di esseri umani hanno camminato sul pianeta Terra.
Orbene, è questo un numero interessante, in quanto, per una coincidenza bizzarra, esistono approssimativamente cento miliardi di stelle nel nostro universo locale, la Via Lattea. Così, per ogni uomo che abbia vissuto, in questo universo splende una stella.
Ma ognuna di queste stelle è un astro, spesso di gran lunga più brillante e luminoso della piccola stella a noi vicina che chiamiamo il Sole. E molti, la maggior parte, forse, di questi astri estranei hanno pianeti che ruotano intorno ad essi. Così, quasi certamente, esistono abbastanza terre nel firmamento per offrire a ciascun componente della specie umana, tornando indietro nel tempo fino al primo uomoscimmia, il suo paradiso, o il suo inferno, personale, grande come il nostro mondo.
Non abbiamo alcun modo di supporre quanti di questi potenziali inferni e paradisi siano attualmente abitati, e da quale specie di creature; il più prossimo è un milione di volte più lontano di Marte o di Venere, le mete ancor remote della prossima generazione. Ma le barriere della distanza stanno crollando; un giorno incontreremo i nostri pari, o i nostri padroni, tra le stelle.
Gli uomini hanno tardato ad affrontare tale prospettiva; alcuni sperano ancora che possa non avverarsi mai. Ma altri, in numero sempre più grande, si stanno domandando: «Perché questi incontri non si sono già determinati, dato che noi stessi siamo sul punto di avventurarci nello spazio?»
Perché no, infatti? Ecco una possibile risposta a questo interrogativo ragionevolissimo. Ma, vi prego di ricordarlo: il libro è soltanto frutto dell’immaginazione.
La verità, come sempre, sarà di gran lunga più strana.
PARTE I
NOTTE PRIMEVA
1. LA VIA DELL’ESTINZIONE
La siccità si protraeva ormai da dieci milioni di anni, e il regno delle terribili lucertole era finito da molto tempo. Lì, sull’Equatore, nel continente che un giorno sarebbe stato chiamato Africa, la lotta per la vita aveva raggiunto un nuovo diapason di ferocia, e il vincitore ancora non si intravedeva. In quella terra sterile e arida soltanto le creature piccole o fulminee o feroci potevano prosperare, o appena sperare di sopravvivere.
Gli uominiscimmia del veldt non possedevano alcuna di queste caratteristiche e non stavano prosperando; si trovavano anzi già molto avanti sulla via dell’estinzione della razza. Una cinquantina di loro occupava un gruppo di caverne che dominavano una valletta riarsa, percorsa da un pigro torrente alimentato dalle nevi delle montagne trecentoventi chilometri più a nord. Nei tempi cattivi il torrente svaniva del tutto, e la tribù viveva all’ombra della sete.
Erano sempre affamati, gli uominiscimmia, e ora stavano morendo di fame. Quando il primo tenue chiarore dell’alba si insinuò nella caverna, GuardalaLuna vide che suo padre era morto durante la notte. Ignorava che il Vecchio fosse suo padre, poiché un simile rapporto di parentela era completamente al di là dalle sue capacità di comprensione, ma, mentre contemplava il corpo emaciato, provò un’inquietudine vaga, l’antenata della tristezza.
I due piccoli già uggiolavano chiedendo cibo, ma tacquero quando GuardalaLuna ringhiò contro di loro. Una delle madri, per difendere il poppante che non riusciva ad allattare a sufficienza, ringhiò a sua volta irosamente; a lui mancò la forza anche soltanto di percuoterla per la sua presunzione.
Ormai faceva abbastanza chiaro per andarsene. GuardalaLuna sollevò il cadavere avvizzito e lo trascinò dietro di sé, mentre si chinava sotto la bassa volta della caverna. Una volta fuori, si caricò il corpo sulle spalle e assunse una posizione eretta… l’unico animale in quel mondo che ne fosse capace.
Tra le creature della sua razza, GuardalaLuna era quasi un gigante, alto forse un metro e mezzo, e, sebbene assai denutrito, pesava più di cinquanta chili. Il suo corpo peloso e muscoloso era una via di mezzo tra la scimmia e l’uomo, ma la testa si avvicinava molto di più a quella dell’uomo che a quella della scimmia. La fronte era bassa, con sporgenze ossee sopra le orbite, eppure egli possedeva inequivocabilmente nei propri geni la promessa dell’umanità. Mentre contemplava, fuori dalla caverna, il mondo ostile del Pleistocene, v’era già qualcosa nel suo sguardo che trascendeva le capacità di qualsiasi scimmia. In quegli occhi scuri, profondamente infossati, si celava una nascente consapevolezza… i primi barlumi di un’intelligenza cui ancora per epoche non sarebbe stato possibile estrinsecarsi, e che presto si sarebbe potuta estinguere per sempre.
Non si vedeva alcun indizio di pericolo, e così GuardalaLuna incominciò a strisciare giù per il pendìo quasi verticale fuori dalla caverna, ostacolato soltanto in modo trascurabile dal suo fardello. Quasi avessero aspettato il suo segnale, gli altri della tribù sbucarono fuori dai loro rifugi, più in basso sulla parete rocciosa, e incominciarono ad affrettarsi verso le acque melmose del torrente per l’abbeverata mattutina.
GuardalaLuna spinse lo sguardo oltre la valle per vedere se gli Altri fossero visibili, ma non se ne scorgeva traccia. Forse non erano ancora usciti dalle loro caverne, oppure stavano già foraggiando più avanti, lungo il fianco della collina. Poiché rimanevano invisibili, GuardalaLuna li dimenticò; era incapace di crucciarsi per più di una cosa alla volta.
Anzitutto doveva sbarazzarsi del Vecchio, ma questo era un problema che richiedeva poca riflessione. Vi erano state molte morti in quella stagione, una di esse nella sua caverna; doveva soltanto lasciare il cadavere dove aveva abbandonato l’ultimo piccolo, all’ultimo quarto di luna, e le iene avrebbero fatto il resto.
Già erano in attesa, ove la valletta si apriva a ventaglio nella savana, quasi avessero saputo che lui stava arrivando. GuardalaLuna lasciò il cadavere sotto un piccolo cespuglio (tutte le ossa di prima erano già scomparse) e si affrettò a tornare indietro per raggiungere la tribù. Non doveva pensare mai più a suo padre.
Le sue due femmine, gli adulti delle altre caverne, e quasi tutti i giovani stavano foraggiando tra gli alberi resi stenti dalla siccità, più a monte nella valle, in cerca di bacche, di radici succulente e di foglie, nonché, occasionalmente, di inaspettati colpi di fortuna come piccole lucertole o roditori. Soltanto i piccoli e i più deboli tra i vecchi venivano lasciati nelle caverne; se al termine delle ricerche di un’intera giornata fosse avanzato del cibo, avrebbero potuto sfamarsi. Altrimenti, ben presto, le iene sarebbero state fortunate una volta di più.
Ma quel giorno era propizio, anche se, non serbando alcun vero ricordo del passato, GuardalaLuna non poteva paragonare un periodo di tempo con l’altro. Egli aveva trovato un alveare nel tronco di un albero morto, e si era così goduto la suprema ghiottoneria che il suo popolo potesse mai conoscere; seguitava a leccarsi le dita, di tanto in tanto, nel tardo pomeriggio, guidando il gruppo verso la caverna. Naturalmente, gli era toccato anche un bel numero di punture, ma quasi non ci aveva badato. Si trovava adesso tanto vicino al completo soddisfacimento quanto forse non lo sarebbe mai più stato; infatti, sebbene fosse ancora affamato, non era effettivamente indebolito dalla fame. Questo era il massimo cui un uomoscimmia potesse mai aspirare.