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«Stiamo tutti bene», rispose Floyd, cordiale, ma con un’aria lievemente distratta. «Parliamo spesso delle giornate meravigliose che ci facesti trascorrere l’estate scorsa.» Gli dispiacque di non potersi esprimere in un tono più sincero; si erano goduti davvero la settimana di vacanza a Odessa con Dimitri, durante una delle puntate del russo sulla Terra.

«E tu… presumo che tu stia per salire sulla Luna?» domandò Dimitri.

«Ehm… sì. Il mio volo parte tra mezz’ora», rispose Floyd. «Conosci il signor Miller?»

Il funzionario del servizio segreto si era avvicinato e rimaneva a rispettosa distanza, tenendo in mano una tazzina di plastica colma di caffè.

«Certo. Ma la prego, posi quella tazza, signor Miller. È l’ultima opportunità del dottor Floyd di bere qualcosa di civilizzato, non sciupiamogliela.»

Seguirono Dimitri dal salone principale al settore dell’osservatorio, e ben presto sedevano a un tavolo sotto una fioca lampada, osservando il panorama in movimento delle stelle. La Base Spaziale Uno compiva un intero giro al minuto, e la forza centrifuga generata da questa lenta rotazione produceva una gravità artificiale pari a quella della Luna. Ciò, era stato scoperto, costituiva un compromesso accettabile tra la gravità e l’assenza di gravità; inoltre, consentiva ai passeggeri diretti verso la Luna la possibilità di assuefarsi.

All’esterno delle finestre quasi invisibili, la Terra e le stelle marciavano in silenziosa processione. Sul momento, quel lato della Base era reclinato e nascosto al sole; altrimenti sarebbe stato impossibile guardar fuori, in quanto il locale sarebbe stato inondato di luce abbacinante.

Anche così, la luminosità della Terra, che colmava una metà del firmamento, spegneva tutte le stelle, tranne le più splendenti.

Ma la Terra andava scomparendo, perché la Base orbitava verso il lato in ombra del pianeta; di lì a pochi minuti esso non sarebbe stato altro che un enorme disco nero, punteggiato dalle luci delle metropoli. E allora il cielo sarebbe appartenuto alle stelle.

«Ebbene», disse Dimitri, dopo aver rapidamente vuotato il primo bicchiere e mentre si stava trastullando con il secondo, «che cosa sono tutte queste voci su un’epidemia nel settore americano? Volevo recarmi laggiù nel corso di questo viaggio. “No, professore”, mi hanno detto. “Siamo dolentissimi, ma è stata imposta una severa quarantena fino a nuovo avviso.” Ho manovrato tutte le leve che potevo; niente da fare. Adesso dimmi tu che cosa sta succedendo.»

Floyd gemette dentro di sé. Ecco che ci risiamo, si disse. Quanto più presto mi troverò su quella navetta, diretto verso la Luna, tanto più sarò contento.

«La… ehm… la quarantena… è soltanto una misura precauzionale di sicurezza», rispose con cautela. «Non siamo nemmeno ben certi che sia necessaria, ma vogliamo evitare di correre rischi.»

«Ma che cos’è la malattia… quali sono i sintomi? Non potrebbe essere di origine extraterrestre? Vuoi la collaborazione dei nostri servizi medici?»

«Mi dispiace, Dimitri… Siamo stati pregati di non dire nulla per il momento. Grazie dell’offerta, ma possiamo risolvere la situazione.»

«Hmmmmm», fece Moisevic, ovviamente per nulla persuaso. «Mi sembra strano che proprio tu, un astronomo, debba essere mandato sulla Luna a studiare un’epidemia.»

«Sono soltanto un ex astronomo; da anni non eseguo più vere ricerche. Attualmente mi considerano un esperto scientifico; questo significa che non so assolutamente niente di tutto.»

«Allora sai che cosa significa TMA-1?»

Miller parve sul punto di essere soffocato da quanto stava bevendo, ma Floyd era di una più dura tempra. Guardò negli occhi il vecchio amico e disse calmo: «TMA-1? Che sigla bizzarra! Dove l’hai sentita?»

«Lascia stare», replicò il russo. «Non riesci ad abbindolarmi. Ma se vi siete imbattuti in qualcosa che non riuscite a controllare, non aspetterete, spero, che sia troppo tardi prima di invocare aiuto.»

Miller guardò significativamente l’orologio.

«Deve trovarsi a bordo tra cinque minuti, dottor Floyd», disse. «Sarebbe bene andare, credo.»

Pur sapendo che rimanevano ancora almeno venti minuti, Floyd si affrettò ad alzarsi. Troppo frettolosamente, poiché aveva dimenticato la gravità ridotta a un sesto. Si afferrò al tavolo appena in tempo per impedire un decollo.

«È stato un piacere incontrarti, Dimitri» disse, non proprio sinceramente. «Spero che tu faccia buon viaggio fino alla Terra. Non appena di ritorno, ti telefonerò.»

Mentre uscivano e attraversavano la recinzione degli Stati Uniti, Floyd osservò: «Pfui… ci è mancato un pelo. Grazie per avermi tratto in salvo.»

«Sa, dottore», disse il funzionario dei servizi di sicurezza, «spero che non abbia ragione.»

«Ragione a quale proposito?»

«A proposito del fatto che ci siamo imbattuti in qualcosa di incontrollabile.»

«Questo», rispose Floyd con determinazione, «è quanto intendo accertare.»

Quarantacinque minuti dopo, il trasporto lunare Aries-1B si staccò dalla Base. Non vi furono affatto la potenza e la furia del decollo dalla Terra… soltanto un sibilo quasi impercettibile e remoto, mentre i reattori al plasma a bassa spinta lanciavano nello spazio i loro flussi elettrizzati. La dolce propulsione si protrasse per più di quindici minuti, e la modesta accelerazione non avrebbe impedito a nessuno di muoversi nella cabina. Ma quando la propulsione cessò, la nave spaziale non era più legata alla Terra, come quando accompagnava ancora la Base. Aveva spezzato i vincoli della gravità e adesso era un pianeta libero e indipendente che girava attorno al Sole seguendo una sua orbita.

La cabina che Floyd aveva adesso tutta per sé era stata progettata per trenta passeggeri. Fu strano, e lo fece sentire alquanto solo, vedere tutti quei sedili vuoti intorno a lui, ed essere l’unico oggetto delle attenzioni del cameriere e della hostess… per non parlare del pilota, del copilota e dei due tecnici. Dubitò che qualsiasi uomo nella storia del mondo avesse mai ricevuto un servizio così esclusivo, e ritenne molto improbabile che a qualcun altro potesse accadere la stessa cosa in avvenire. Ricordò la cinica osservazione di uno dei pontefici meno rispettabili: «Adesso che abbiamo il papato, godiamocelo». Bene, si sarebbe goduto quel viaggio, e l’euforia dell’assenza di peso. Con la perdita della gravità si era, almeno temporaneamente, liberato dalla maggior parte dei suoi crucci. Qualcuno aveva detto una volta che si poteva essere atterriti nello spazio, ma non essere assillati dai crucci. Era verissimo.

La hostess e il cameriere, a quanto pareva, erano decisi a farlo mangiare per tutte le venticinque ore del viaggio, ed egli non faceva altro che rifiutare pasti indesiderati. Mangiare con gravità zero non costituiva una vera difficoltà, contrariamente alle nere previsioni dei primi astronauti. Egli sedeva a un normale tavolo, al quale i piatti erano fissati, come a bordo delle navi con il mare in tempesta. Tutte le portate avevano una certa vischiosità, in modo che non potessero staccarsi dal piatto e andare a vagabondare per la cabina. Così una bistecca veniva incollata al piatto da una salsa densa, e l’insalata era tenuta sotto controllo da condimento adesivo. Con un po’’ di abilità e di cautela, erano ben pochi i cibi che non potessero essere gustati tranquillamente; le sole cose vietate erano le minestre calde e la pasticceria troppo friabile. Per le bevande, inutile dirlo, le cose stavano diversamente; tutti i liquidi dovevano essere contenuti in tubi di plastica che si spremevano.

Ricerche condotte da un’intera generazione di eroici ma non celebrati volontari erano state utilizzate per costruire la toletta, che veniva ora considerata più o meno sicura, anche per gli inesperti. Floyd la mise alla prova non appena la caduta libera ebbe inizio. Venne a trovarsi in un piccolo cubicolo, con tutti gli impianti igienici di una normale toletta da aereo, illuminato però da una luce rossa molto forte e sgradevole per gli occhi. Un avviso in grandi lettere annunciava: IMPORTANTISSIMO! PER IL VOSTRO COMFORT SIETE PREGATI DI LEGGERE ATTENTAMENTE QUESTE ISTRUZIONI!