Floyd sedette (si tendeva ancora a farlo, anche in assenza di peso) e lesse le istruzioni parecchie volte. Quando fu certo che non vi erano state modifiche dall’ultimo suo viaggio, premette il pulsante con l’indicazione AVVIO.
Nei pressi immediati un motore elettrico cominciò a ronzare, e Floyd sentì che stava muovendosi. Come lo avevano consigliato di fare le istruzioni, chiuse gli occhi e aspettò. Dopo un minuto una campanella suonò sommessamente ed egli si guardò attorno.
La luce era adesso passata a un rasserenante rosabiancastro; ma, quel che più contava, egli si trovava di nuovo in condizioni di gravità. Soltanto una debolissima vibrazione rivelava che si trattava di una gravità spuria, causata dalla rotazione tipo giostra dell’intero cubicolo della toletta. Floyd prese una saponetta e la osservò cadere con un movimento lento; ritenne che la forza centrifuga equivalesse a circa un quarto della gravità normale. Ma era più che sufficiente; bastava a far sì che ogni cosa si muovesse nella direzione giusta, nell’unico luogo in cui la cosa rivestiva un’importanza essenziale.
Premette il pulsante con l’indicazione STOP PER USCITA, e di nuovo chiuse gli occhi. Il peso defluì adagio mentre la rotazione cessava, la campanella suonò due volte, e la luce rossa di avvertimento si riaccese. La porta si aprì poi nella posizione opportuna per consentirgli di scivolar fuori e ritornare nella cabina ove aderì il più rapidamente possibile al tappeto. La novità dell’assenza di peso si era esaurita già da un pezzo per lui, ed egli fu grato alle pantofole Velcro che gli con sentivano di camminare quasi normalmente.
Ebbe tutto il modo di occupare il proprio tempo, anche se non fece altro che restare seduto e leggere. Quando si stancava dei rapporti ufficiali, dei memorandum e delle minute, inseriva lo schermonotizie formato foglio protocollo nel circuito informazioni della nave spaziale e poteva leggere le ultimissime dalla Terra. A uno a uno captava i più diffusi quotidiani elettronici del mondo; conosceva a mente i numeri di codice dei più importanti e poteva fare a meno di consultare l’elenco dietro lo schermo. Spostando l’interruttore sulla memoria a breve termine dello schermo, manteneva ferma su di esso la prima pagina, mentre rapidamente scorreva i titoli e prendeva nota delle notizie che lo interessavano. Ognuna poteva essere inquadrata da un doppio cursore di riferimento; spostando quest’ultimo, un rettangolo formato francobollo si ampliava colmando completamente lo schermo e lo poneva in grado di leggere agevolmente la notizia. Dopo la lettura, tornava alla pagina completa e sceglieva una nuova notizia o un altro articolo da leggere integralmente.
Floyd si domandava a volte se lo schermonotizie e la tecnica fantastica che lo aveva realizzato sarebbero stati l’ultima parola nella ricerca umana di comunicazioni perfette. Eccolo in un punto remoto dello spazio, su una nave spaziale che si allontanava dalla Terra a migliaia di chilometri all’ora, eppure in pochi millesimi poteva esaminare i titoli di qualsiasi quotidiano avesse prescelto. (Questo stesso termine, «quotidiano», naturalmente, era un residuo anacronistico nell’epoca dell’elettronica.) I testi venivano aggiornati automaticamente ogni ora; anche leggendo soltanto le edizioni inglesi, si poteva trascorrere un’intera esistenza non facendo altro che assimilare il fiume di informazioni sempre rinnovato trasmesso dai satelliti delle notizie.
Era difficile immaginare in qual modo il sistema potesse essere perfezionato o reso più comodo. Ma, prima o poi, supponeva Floyd, esso sarebbe tramontato, per venir sostituito da qualcos’altro di inimmaginabile come lo sarebbe stato lo stesso schermonotizie per Caxton o per Gutenberg.
La lettura di uno di quei minuscoli titoli elettronici induceva spesso a un’altra riflessione. Quanto più erano miracolosi i mezzi di comunicazione, tanto più banale, di cattivo gusto e deprimente sembrava essere il contenuto delle notizie che trasmettevano. Incidenti, delitti, disastri naturali e causati dall’uomo, minacce di guerra, tetri articoli di fondo… tutte queste cose continuavano a essere il succo dei milioni di parole diffusi nell’etere. Eppure Floyd si domandava altresì se questo fosse, tutto sommato, un fatto negativo; i quotidiani di Utopia, aveva deciso già da un pezzo, sarebbero stati tremendamente noiosi.
Di quando in quando il comandante e gli altri dell’equipaggio entravano nella cabina e scambiavano qualche parola con lui. Trattavano con timore reverenziale il loro distinto passeggero, e ardevano senza dubbio dalla curiosità di sapere quale fosse la sua missione, ma erano troppo corretti per fare domande, o anche soltanto per lasciar cadere qualche allusione.
Soltanto l’incantevole piccola hostess sembrava completamente a proprio agio alla sua presenza. Come Floyd scoprì ben presto, veniva da Bali, e aveva portato di là dall’atmosfera terrestre una parte della grazia e del mistero di quell’isola ancora in vasta misura non contaminata dal progresso. Uno dei ricordi più bizzarri e più incantevoli di tutto quel viaggio doveva essere la dimostrazione che ella gli diede, con gravità zero, di alcuni classici movimenti di danze balinesi, mentre sullo sfondo si scorgeva la bella falce azzurroverde della Terra che andava allontanandosi.
Vi fu un periodo di sonno, quando le lampade nella cabina principale vennero spente e Floyd assicurò le proprie gambe e le proprie braccia con le fasce elastiche che gli avrebbero impedito di andare a galleggiare nello spazio. Sembrava una sistemazione scomoda… ma lì, con gravità zero, il sedile non imbottito era più comodo del più morbido materasso sulla Terra.
Dopo essersi ancorato con le fasce elastiche, Floyd si appisolò abbastanza rapidamente, ma si destò a un certo momento, in uno stato sonnacchioso di semicoscienza, e l’ambiente estraneo che lo circondava lo lasciò completamente disorientato. Per un momento credette di trovarsi al centro di una lanterna cinese fiocamente illuminata; fu il tenue bagliore proveniente dagli altri cubicoli intorno a lui a dargli questa impressione. Poi disse a se stesso, con fermezza e con esito positivo: «Addormentati, figliolo; ti trovi su una normalissima “navetta” lunare».
Quando si destò la Luna aveva divorato una metà del cielo, e le manovre di frenaggio stavano per cominciare. L’ampio arco dei finestrini incastrati nella parete ricurva della cabina passeggeri, guardava ora sull’aperto cielo, ora sul globo sempre più vicino, per cui egli passò nella cabina di comando. Là, sugli schermi televisivi puntati posteriormente alla nave spaziale, poté seguire le ultime fasi della discesa.
I monti lunari che andavano avvicinandosi erano completamente diversi da quelli della Terra; non possedevano le abbacinanti calotte di neve, le vesti verdi e aderenti della vegetazione, le corone di nubi in movimento. Ciò nonostante, i netti contrasti di luce e d’ombra davano loro una strana e tipica bellezza. Le leggi dell’estetica terrena non si applicavano lì; quel mondo era stato foggiato e plasmato da forze diverse da quelle terrestri, forze che avevano agito per ere di tempo ignote alla Terra giovane e verdeggiante, con le sue fuggevoli ere glaciali, i suoi mari che rapidamente si sollevavano e si abbassavano, le catene montuose dissolventisi come bruma prima dell’alba. Là si trovava una vecchiaia inconcepibile, ma non la morte, poiché la Luna non aveva mai vissuto, fino ad ora.
La nave spaziale in discesa era in equilibrio quasi al di sopra della linea che divideva la notte dal giorno, e immediatamente sotto di essa si stendeva un caos di ombre frastagliate e di picchi brillanti e isolati che coglievano la prima luce della lenta alba lunare. Quella sarebbe stata una zona paurosa per tentarvi un atterraggio, anche con tutti i possibili ausili elettronici; ma se ne stavano allontanando adagio, diretti verso il lato della Luna immerso nella notte.