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Con il suo complesso di officine, uffici, magazzini, centro calcolatore, generatori, rimessa, cucine, laboratori e impianto per la lavorazione di generi alimentari, la Base Clavius era un mondo in miniatura. È, ironico a dirsi, molte delle tecniche impiegate per costruire questo impero sotterraneo erano state perfezionate nel mezzo secolo di guerra fredda.

Chiunque avesse lavorato in una postazione protetta di missili, si sarebbe sentito a suo agio a Clavius. Lì sulla Luna si ricorreva alle stesse arti di vita sotterranea e di protezione da un ambiente ostile; ma nella Base Clavius queste arti erano state dedicate a scopi pacifici. Dopo diecimila anni, l’uomo aveva finalmente trovato qualcosa che lo entusiasmava quanto la guerra. Purtroppo, non tutte le nazioni se ne erano ancora rese conto.

* * *

Le montagne che erano sembrate così imponenti subito prima dell’allunaggio, erano misteriosamente scomparse, sottratte alla vista dall’orizzonte lunare che si incurvava ripido. Intorno alla nave spaziale si stendeva una pianura piatta e grigia, vividamente illuminata dalla luce obliqua della Terra. Sebbene il cielo fosse, naturalmente, del tutto nero, si riuscivano a scorgere soltanto le stelle più luminose e i pianeti, a meno che non ci si facesse schermo agli occhi dal bagliore della superficie.

Parecchi veicoli assai bizzarri stavano avanzando verso la nave spaziale Aries-1B: gru, montacarichi, carriattrezzi, alcuni automatici, altri azionati da un conducente in una piccola cabina pressurizzata. Quasi tutti si muovevano su pneumatici, poiché quella superficie liscia e piana non poneva alcuna difficoltà di trasporto; ma un’autocisterna veniva avanti sulle peculiari ruote flessibili che avevano dimostrato di essere uno dei mezzi più efficaci su ogni terreno per esplorare la Luna. Una serie di lastre piatte disposte circolarmente, ogni lastra montata e molleggiata indipendentemente, la ruota flessibile presentava molti vantaggi del cingolo, dal quale derivava. Adattava li propria forma e il proprio diametro al terreno sul quale si muoveva e, al contrario del cingolo di un trattore, continuava a funzionare anche se mancavano alcune sezioni.

Un piccolo autobus, con un tubo estensibile simile alla proboscide tronca di un elefante, stava ora annusando affettuosamente la nave spaziale. Pochi secondi dopo, si udirono colpi e urti all’esterno, seguiti da un sibilo d’aria, mentre si facevano i collegamenti e la pressione veniva uguagliata. Il portello interno della camera di equilibrio si aprì e la delegazione destinata ad accogliere l’ospite entrò.

Era guidata da Ralph Halvorsen, l’amministratore della Provincia Meridionale… comprendente non soltanto la Base, ma anche ogni gruppo esplorante in partenza da essa. Lo accompagnavano il suo direttore scientifico, il dottor Roy Michaels, un piccolo geofisico brizzolato conosciuto da Floyd in occasione dei suoi precedenti viaggi sulla Luna, e una mezza dozzina dei più importanti scienziati e dirigenti. Schifarono il nuovo arrivato con rispettoso sollievo; dall’amministratore in giù, appariva ovvio che erano tutti ansiosi di scaricarsi di una parte delle loro preoccupazioni.

«Lietissimo di averla con noi, dottor Floyd», disse Halvorsen. «Ha fatto buon viaggio?»

«Un viaggio eccellente», rispose Floyd. «Non sarebbe potuto essere migliore. L’equipaggio è stato premurosissimo con me.»

Vi fu la consueta conversazione spicciola richiesta dalla cortesia, mentre l’autobus si allontanava dalla Base Spaziale; per un tacito accordo, nessuno accennò al motivo del viaggio. Dopo aver percorso un migliaio di metri dal punto dell’allunaggio, l’autobus arrivò davanti a un grande cartello sul quale stava scritto:

BENVENUTI ALLA BASE CLAVIUS

Corpo del Genio astronautico USA 1994

Poi si tuffò in uno scivolo che lo condusse rapidamente sotto il livello del suolo. Una porta massiccia si aprì davanti a loro, quindi si chiuse dietro di essi. Ciò si ripeté una seconda e una terza volta. Quando anche l’ultima porta si fu chiusa, si avvertì un gran rombo d’aria, e tutti si ritrovarono una volta di più nell’atmosfera, nell’ambiente «maniche di camicia» della Base.

Dopo un breve tragitto a piedi lungo una galleria piena zeppa di tubazioni e di cavi, e nella quale echeggiavano cavernosamente tonfi e pulsazioni ritmiche, giunsero nel settore esecutivo, e Floyd si ritrovò nell’ambiente familiare delle macchine per scrivere, delle calcolatrici per ufficio, delle segretarie, dei diagrammi alle pareti e dei telefoni squillanti.

Mentre si fermavano davanti alla porta con la targhetta AMMINISTRATORE, Halvorsen disse diplomaticamente: «Il dottor Floyd e io vi raggiungeremo nella sala delle conferenze tra un paio di minuti.»

Gli altri annuirono, con suoni compiti di approvazione e si allontanarono nel corridoio. Ma prima che Halvorsen avesse potuto introdurre Floyd nel suo ufficio, vi fu un’interruzione. La porta si aprì e una piccola sagoma si lanciò contro l’amministratore.

«Papà! Sei stato di sopra! E avevi promesso di portare anche me.»

«Suvvia, Diana», disse Halvorsen, con esasperata tenerezza, «ti avevo detto soltanto che saresti venuta se fosse stato possibile. Invece ho avuto moltissime cose da sbrigare e sono dovuto andare incontro al dottor Floyd. Stringigli la mano… è appena arrivato dalla Terra.»

La bimbetta — Floyd ritenne che fosse sugli otto anni — gli tese una mano inerte. Aveva un viso vagamente familiare, e Floyd si accorse a un tratto che l’amministratore lo stava sbirciando con un sorriso canzonatorio. Ricordando con un sussulto, capì perché.

«Non posso crederlo!» esclamò. «L’ultima volta che fui qui era quasi una neonata!»

«Ha compiuto quattro anni la settimana scorsa», rispose orgoglioso Halvorsen. «I bambini crescono in fretta con questa bassa gravità. Ma non invecchiano altrettanto rapidamente… vivranno più a lungo dì noi.»

Floyd fissò affascinato la bimbetta così sicura di sé, notandone il portamento pieno di grazia e l’inconsueta, delicata struttura.

«È un piacere rivederti, Diana», disse. Poi, qualcosa… forse pura curiosità, forse cortesia… lo indusse ad aggiungere: «Ti piacerebbe andare sulla Terra?»

La bambina spalancò gli occhi per lo stupore, poi scosse la testa.

«È un bruttissimo posto; ci si fa male quando si cade. E inoltre, c’è troppa gente.»

Sicché ecco qui, si disse Floyd, la prima generazione dei NatinelloSpazio; ve ne sarebbero stati molti di più negli anni a venire. Sebbene vi fosse malinconia in questa riflessione, v’era anche una grande speranza. Una volta che la Terra fosse divenuta mansueta e tranquilla, e forse un po’’ stanca, vi sarebbero state ancora opportunità per coloro che amavano essere liberi, per i duri pionieri, per gli irrequieti avventurieri. Ma i loro mezzi non sarebbero consistiti in una scure e in un fucile, in una canoa e in un carro coperto; essi avrebbero potuto disporre di centrali nucleari, di reattori al plasma, di colture in soluzioni liquide nutritive. Si stava avvicinando rapidamente il momento in cui la Terra, come tutte le madri, avrebbe dovuto dire addio ai propri figli.