Sicché ci siamo, pensò Floyd, mentre il laboratorio mobile passava accanto alle cupole a pressione, e si fermava sull’orlo del cratere. Il cuore gli batté in fretta mentre si sporgeva in avanti per vedere meglio. Il veicolo prese a strisciare con cautela giù per una rampa di roccia compatta nell’interno del cratere. E là, esattamente come lo aveva veduto nelle fotografie, si trovava il TMA-1.
Floyd lo fissò, batté le palpebre, scosse la testa, e tornò a fissarlo. Anche nella vivida luce della Terra non era facile vedere con chiarezza l’oggetto; la sua prima impressione fu quella di un rettangolo piatto che sarebbe potuto essere ritagliato in un foglio di carta carbone; sembrava che non avesse alcuno spessore. Naturalmente, questa era un’illusione ottica; sebbene stesse contemplando un corpo solido, esso rifletteva così poca luce che riusciva a scorgerlo soltanto di profilo.
I passeggeri serbarono il silenzio più assoluto, mentre il laboratorio mobile scendeva nel cratere. V’era timore reverenziale, e v’era anche incredulità… pura incapacità di credere che la morta Luna, tra tutti i mondi, potesse aver fruttato quella sorpresa fantastica.
Il laboratorio mobile si fermò a sei metri dal monolito e di fianco a esso, in modo che tutti i passeggeri potessero esaminarlo. Ciò nonostante, a parte la forma perfettamente geometrica dell’oggetto, v’era poco da vedere. In nessun punto si scorgevano segni qualsiasi, o una qualunque attenuazione di quell’estremo neroebano. Lo si sarebbe detto la cristallizzazione stessa della notte, e per un momento Floyd si domandò se non potesse trattarsi, in effetti, di qualche straordinaria formazione naturale, nata dalle fiamme e dalle pressioni accompagnatesi alla creazione della Luna. Ma questa possibilità, lo sapeva, era già stata esaminata e scartata.
A un segnale, i riflettori intorno all’orlo del cratere furono accesi, e la vivida luce della Terra venne cancellata da un bagliore di gran lunga più brillante. Nel vuoto lunare i fasci luminosi erano, naturalmente, del tutto invisibili; formarono ellissi sovrapposte di un bianco accecante, centrate sul monolito. E là dove lo toccavano, la sua superficie color ebano sembrava assorbirle.
Il vaso di Pandora, pensò Floyd, con un improvviso presentimento… in attesa di essere aperto dall’uomo indagatore. E che cosa vi troverà dentro?
13. LA LENTA ALBA
La principale cupola a pressione nella località del TMA-1 distava appena sei metri e il suo interno era scomodamente affollato. Il laboratorio mobile, accoppiato ad essa mediante una delle due camere d’equilibrio, consentì di avere una apprezzatissima aggiunta di spazio abitabile.
Nel pallone semisferico a doppia parete lavoravano e dormivano i sei scienziati e tecnici ora stabilmente adibiti allo studio del monolito. La cupola conteneva inoltre quasi tutto il loro equipaggiamento e quasi tutti gli strumenti, tutte le provviste che non potevano essere lasciate nel vuoto esterno, la cucina e gli impianti igienici, campioni geologici e un piccolo schermo televisivo mediante il quale lo scavo poteva essere tenuto sotto continua sorveglianza.
Floyd non si stupì quando Halvorsen decise di restare nella cupola; egli espose i suoi punti di vista con ammirevole franchezza.
«Considero le tute spaziali un male necessario», disse l’amministratore. «Ne indosso una quattro volte all’anno, per i controlli quadrimestrali. Se non le dispiace, rimarrò qui e vi osserverò attraverso lo schermo televisivo.»
In parte, questo suo pregiudizio era ormai ingiustificato, poiché gli ultimi modelli di tute spaziali erano infinitamente più comodi delle goffe corazze indossate dai primi esploratori lunari. Potevano essere infilati in meno di un minuto, anche senza nessun aiuto, ed erano completamente automatici. Il modello Mk V, nel quale Floyd venne ora accuratamente rinchiuso, lo avrebbe protetto dalle peggiori situazioni lunari, sia di giorno sia di notte.
Accompagnato dal dottor Michaels, egli passò nella piccola camera d’equilibrio. Mentre la pulsazione delle pompe cessava e la tuta si irrigidiva intorno a lui in modo appena percettibile, si sentì circondato dal silenzio del vuoto.
Quel silenzio fu rotto dal gradito suono della radio contenuta nella tuta.
«La pressione è okay, dottor Floyd? Sta respirando normalmente?»
«Sì… sto benissimo.»
Il suo compagno controllò attentamente i quadranti e gli indicatori all’esterno della tuta di Floyd. Poi disse:
«Okay… andiamo.»
La porta esterna si aprì ed ebbero dinanzi a loro il polveroso paesaggio lunare, baluginante nella luce riflessa della Terra.
Con un cauto movimento ondeggiante Floyd seguì Michaels attraverso il portello; non era faticoso camminare. Anzi, paradossalmente, la tuta lo faceva sentire più a suo agio che in qualunque altro momento da quando era arrivato sulla Luna. Il peso in più e la lieve resistenza opposta al suo moto, davano in qualche modo l’illusione della perduta gravità terrestre.
Lo scenario era cambiato dall’arrivo del gruppo, appena un’ora prima. Sebbene le stelle e l’emisfero terrestre continuassero a essere luminosi come sempre, la notte lunare, della durata di quattordici giorni terrestri, era quasi finita. Il bagliore della corona sembrava un falso sorgere della Luna nel cielo a oriente… e poi, inaspettatamente, la sommità dell’antenna radio, trenta metri più in alto del capo di Floyd, parve a un tratto prorompere come una fiammata, mentre coglieva i primi raggi del sole nascosto.
Aspettarono, mentre il supervisore delle ricerche e due dei suoi collaboratori emergevano dalla camera d’equilibrio, poi si incamminarono adagio verso il cratere. Quando lo ebbero raggiunto, un arco sottile di intollerabile incandescenza si era spinto sopra l’orizzonte a oriente. Anche se il sole avrebbe impiegato più di un’ora per emergere completamente oltre l’orlo della Luna in lenta rotazione, le stelle erano già bandite.
Il cratere continuava a essere immerso nell’ombra, ma i riflettori disposti intorno al suo orlo ne illuminavano vividamente l’interno. Scendendo adagio la rampa verso il rettangolo nero, Floyd provò una sensazione non soltanto di timore reverenziale ma anche di impotenza. Lì, proprio alle soglie della Terra, l’uomo si trovava già a faccia a faccia con un mistero che forse non sarebbe stato mai risolto. Tre milioni d’anni prima, qualcosa era passato da quella parte, aveva lasciato quel simbolo ignoto e forse inconoscibile del proprio scopo, ed era tornato ai pianeti… o alle stelle.
La radio della tuta di Floyd interruppe le sue fantasticherie. «Parla il supervisore delle ricerche. Se non vi dispiace allinearvi tutti da quella parte, vorremmo scattare alcune fotografie. Dottor Floyd, vuole, per cortesia, mettersi al centro… Dottor Michaels… grazie…»
Nessuno, tranne Floyd, parve ritenere che vi fosse qualcosa di ridicolo in tutto ciò. Molto sinceramente, comunque, egli dovette ammettere di essere lieto che qualcuno avesse portato una macchina fotografica; ecco un’istantanea destinata senza dubbio a rimanere storica, ed egli ne voleva alcune copie per sé. Sperò che la sua faccia restasse chiaramente visibile attraverso il casco della tuta.
«Grazie, signori», disse il fotografo, dopo che ebbero posato un po’’ impacciati di fronte al monolito, consentendogli di scattare una dozzina di fotografie. «Chiederemo alla Sezione fotografica della Base di farvi avere le copie.»
Floyd dedicò poi tutta la sua attenzione al monolito di ebano… girandogli intorno adagio, esaminandolo da ogni punto di vista, cercando di imprimersene nella mente la stranezza. Non si aspettava di trovare alcunché, poiché sapeva che ogni centimetro quadrato della superficie era già stato esaminato con accuratezza microscopica.
Ora il sole pigro si era sollevato sopra l’orlo del cratere, e i suoi raggi si riversavano sulla faccia est del blocco quasi in pieno. Eppure esso sembrava assorbire tutti i corpuscoli della luce come se non fossero mai esistiti.