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Poi una voce distesa, amichevole, ma, lo sapeva, generata da un calcolatore, gli parlò.

«Stai diventando operativo, Bave. Non alzarti e non tentare alcun movimento brusco. Non cercare di parlare.»

Non alzarti! pensò Bowman. Questa sì ch’era buffa. Dubitava di poter anche soltanto muovere un dito. Ma, non senza stupore, constatò che vi riusciva.

Provò una soddisfazione immensa, sia pure in un modo stordito e stupido. Sapeva vagamente che la nave spaziale di soccorso doveva essere arrivata, che la procedura automatica di ritorno alla vita era stata avviata, e che ben presto avrebbe veduto altri esseri umani. Tutto ciò era piacevole, ma non lo entusiasmò.

Di lì a poco si sentì affamato. Il calcolatore, naturalmente, aveva previsto questa sua necessità.

«C’è un pulsante di comando accanto alla tua mano destra, Dave. Se hai appetito, premilo.»

Bowman costrinse le proprie dita a cercare qua e là, e di lì a poco trovò il pulsante di forma ovale. Aveva dimenticato tutto al riguardo, sebbene dovesse aver saputo della sua esistenza. Ma quante altre cose aveva dimenticato! L’ibernazione cancellava forse i ricordi?

Premette il pulsante e aspettò. Parecchi minuti dopo, un braccio metallico si spostò sulla cuccetta, e un succhietto di plastica calò verso le sue labbra. Bowman succhiò avidamente e un liquido caldo e dolce gli scorse nella gola, rinnovando le sue energie a ogni goccia.

Di lì a poco il braccio si allontanò ed egli riposò ancora. Adesso riusciva a muovere le braccia e le gambe; l’idea di camminare non era più un sogno impossibile.

Sebbene sentisse le forze tornargli rapidamente, sarebbe stato lieto di giacere lì per sempre, purché non vi fossero stati ulteriori stimoli esterni. Ma, di lì a non molto, un’altra voce gli parlò… e questa volta era completamente umana, non un aggregato di impulsi elettrici messi insieme da una memoria piùcheumana. Era inoltre una voce familiare, anche se trascorse un po’’ di tempo prima che egli riuscisse a riconoscerla.

«Ciao, Dave. Ti stai riprendendo benissimo. Ora sei in grado di parlare. Sai dove ti trovi?»

Si crucciò al riguardo per qualche momento. Se davvero era in orbita intorno a Saturno, che cosa poteva essere accaduto durante tutti i mesi trascorsi dopo la partenza dalla Terra? Di nuovo incominciò a domandarsi se stesse soffrendo di amnesia. Paradossalmente, questa stessa riflessione lo rassicurò. Se riusciva a ricordare la parola «amnesia» il suo cervello doveva essere in condizioni abbastanza buone…

Ma ancora non sapeva dove si trovava, e colui che parlava all’altro capo del circuito doveva essersi reso conto benissimo della sua situazione.

«Non preoccuparti, Dave. Sono Frank Poole. Sto osservando i tuoi battiti cardiaci e la respirazione… Tutto è perfettamente normale. Devi soltanto rilassarti… e star calmo. Adesso apriremo il portello e ti toglieremo di lì.»

Una luce morbida dilagò nella camera; egli vide sagome in movimento, profilate contro l’apertura sempre più ampia. E in quel momento tutti i ricordi gli tornarono, e seppe esattamente dove si trovava.

Sebbene fosse riemerso sano e salvo dai più estremi limiti del sonno e dal confine vicino della morte, era rimasto in stato di ibernazione soltanto per una settimana. Una volta uscito dall’hibarnaculum non avrebbe veduto il gelido cielo di Saturno; quello distava più di un anno nell’avvenire e un miliardo e seicento milioni di chilometri. Lui si trovava ancora nell’addestratore del Centro Voli Spaziali di Houston, sotto il caldo sole del Texas.

16. HAL

Ma adesso il Texas era invisibile, e persino gli Stati Uniti si vedevano a stento. Sebbene i motori al plasma a bassa spinta avessero cessato da tempo di funzionare, la nave spaziale Discovery si trovava ancora in prossimità della Terra, con la sua sottile struttura a freccia puntata verso lo spazio esterno, e tutti i potentissimi strumenti ottici orientati verso i pianeti lontani, ove si celava il suo destino.

V’era un telescopio, tuttavia, permanentemente puntato sulla Terra. Era montato, come un congegno di mira, alla base dell’antenna a lunga portata della nave spaziale e faceva in modo che la grande antenna parabolica rimanesse rigidamente orientata verso il bersaglio. Finché la Terra rimaneva centrata nel reticolo, il collegamento vitale era assicurato e i messaggi potevano andare e venire lungo il fascio invisibile che ogni giorno si allungava di oltre tre milioni di chilometri.

Per lo meno una volta a ogni turno di guardia, Bowman contemplava la Terra attraverso il telescopio allineato con l’antenna. Poiché la Terra era ormai molto indietro verso il Sole, il suo emisfero buio rimaneva orientato verso la nave spaziale, e sullo schermo indicatore centrale il pianeta appariva simile a un’abbacinante falce argentea, come un’altra Venere.

Accadeva di rado che si riuscissero a distinguere caratteristiche geografiche in quell’arco luminoso sempre più sottile, in quanto nubi e brume le nascondevano, ma anche la parte oscurata del disco aveva un fascino inesauribile. Era disseminata di città risplendenti; a volte ardevano di una luce costante, a volte ammiccavano come lucciole mentre tremolii atmosferici vi passavano sopra.

V’erano inoltre periodi in cui la Luna, mentre seguiva la sua orbita, splendeva come una grande lampada sui bui mari e sui continenti della Terra. Allora, con un fremito di riconoscimento, Bowman riusciva spesso a intravedere linee costiere che gli erano familiari, illuminate dalla spettrale luce lunare. E talora, quando il Pacifico era calmo, vedeva persino il chiaro di luna baluginare sulla sua superficie; e ricordava notti sotto i palmizi di lagune tropicali.

Eppure non provava rimpianti per quelle perdute bellezze. Se le era godute tutte nei trentacinque anni della sua esistenza; ed era deciso a goderle ancora, una volta che fosse tornato ricco e famoso. Nel frattempo, la lontananza le rendeva ancor più preziose.

Il sesto componente dell’equipaggio non si curava di alcuna di queste cose, perché non era umano. Si trattava del perfezionatissimo calcolatore Hal 9000, il cervello e il sistema nervoso dell’astronave.

Hal (che stava, nientemeno, per Calcolatore algoritmico euristicamente programmato) era un capolavoro della terza generazione di calcolatori. Le grandi scoperte in questo campo sembravano determinarsi a intervalli di vent’anni, e l’idea che un altro grande progresso fosse ormai imminente preoccupava già un gran numero di persone.

Il primo progresso lo si era avuto negli anni Quaranta, quando la valvola termoionica, ormai superata da tempo, aveva reso possibili goffi deficienti veloci, come l’ENIAC e i suoi successori. Poi, negli anni Sessanta, era stata perfezionata la microelettronica a stato solido.

Con il suo avvento era apparso chiaro che intelligenze artificiali capaci almeno come quella dell’uomo non potevano essere più grandi di scrivanie o… se soltanto si fosse saputo come costruirle.

Con ogni probabilità, nessuno lo avrebbe saputo mai, ma non importava. Negli anni Ottanta, Minsky e Good avevano dimostrato come reti neutrali potessero essere generate automaticamente, autoreplicate, in armonia con un qualsiasi arbitrario programma di apprendimento. Cervelli artificiali potevano essere creati con un processo sorprendentemente analogo allo sviluppo di un cervello umano. In ogni singolo caso, i particolari precisi non sarebbero mai stati noti e, anche se si fosse potuto conoscerli, erano milioni di volte troppo complessi per la comprensione umana.

Comunque fossero andate le cose, il risultato era consistito in una macchina intelligente capace di riprodurre (alcuni filosofi preferivano ancora servirsi del termine «miniare») quasi tutte le attività del cervello umano, e con una rapidità e una sicurezza di gran lunga maggiori. Si trattava di calcolatori costosissimi, e soltanto pochi esemplari della serie Hal 9000 erano stati costruiti fino a quel momento; ma la vecchia battuta secondo la quale sarebbe stato sempre più semplice creare cervelli organici con mano d’opera non specializzata incominciava a sembrare un po’’ vuota.