Un’ora dopo, il 7794 era una stella sempre meno luminosa che non lasciava più scorgere alcuna traccia di un disco. Quando fu Bowman a montare di guardia era svanito completamente.
Erano di nuovo soli; sarebbero rimasti soli fino a quando le lune più esterne di Giove non fossero venute loro incontro, di lì a tre mesi.
19. IL SUPERAMENTO DI GIOVE
Anche da trentadue milioni di chilometri di distanza, Giove era già l’oggetto celeste più cospicuo nello spazio dinanzi a loro. Il pianeta era adesso un disco pallido color salmone, avente press’a poco la metà delle dimensioni della Luna, come la si vede dalla Terra, con le bande scure e parallele delle sue fasce di nubi chiaramente visibili. A fare la spoletta avanti e indietro sul piano equatoriale del pianeta si vedevano le vivide stelle di Io, Europa, Ganimede e Callisto… mondi che altrove sarebbero stati considerati a buon diritto pianeti essi stessi, ma che qui erano semplicemente satelliti di un padrone gigantesco.
Al telescopio, Giove era uno spettacolo straordinario… un globo variegato e multicolore, che sembrava riempire il cielo. Non ci si riusciva a rendere conto delle sue dimensioni reali; Bowman continuava a rammentare a se stesso che aveva un diametro superiore di undici volte a quello della Terra, ma per lungo tempo questo rimase un dato statistico privo di vero significato.
Poi, mentre si stava informando mediante i nastri delle unità di memoria di Hal, trovò qualcosa che a un tratto mise a fuoco la spaventosa scala delle dimensioni del pianeta. Era un’illustrazione che mostrava l’intera superficie della Terra distaccata e poi applicata, come la pelle di un animale, al disco di Giove. Su quel disco tutti i continenti e gli oceani della Terra non sembravano più grandi dell’India sul globo terrestre.
Quando Bowman si servì del massimo ingrandimento dei telescopi della Discovery, gli parve di essere sospeso sopra un globo lievemente appiattito, e di contemplare dall’alto un panorama di nubi in corsa che erano state lacerate a strisce dalla rapida rotazione del mondo gigantesco. Talora quelle bande si condensavano in ciuffi e grovigli e masse di vapori colorati vaste come continenti; talora erano collegate da ponti fuggevoli lunghi migliaia di chilometri. Celata dietro quelle nubi si trovava tanta di quella materia da superare per il suo peso tutti gli altri pianeti del sistema solare. E che altro, si domandava Bowman, si nascondeva laggiù?
Sopra questo mutevole e turbolento tetto di nubi, che celava per sempre la vera superficie del pianeta, scivolavano a volte forme circolari e oscure. Una delle lune interne stava passando contro il Sole lontano e la sua ombra marciava sotto a essa sull’irrequieta cappa di nuvole di Giove.
V’erano altre, e di gran lunga più piccole lune, anche lì… a trentadue milioni di chilometri da Giove. Ma si trattava soltanto di montagne volanti, con un diametro di poche decine di chilometri, e l’astronave non sarebbe passata in alcun punto vicino a esse. Ogni pochi minuti il trasmettitore radar, chiamando a raccolta tutte le proprie forze, lanciava nello spazio un tuono silenzioso di energia; ma nessuna eco di nuovi satelliti tornava pulsante dal vuoto.
Quello che si determinò, invece, con sempre crescente intensità, fu il rombo della voce radio di Giove. Nel 1955, immediatamente prima dell’alba dell’era spaziale, gli astronomi erano rimasti stupefatti constatando che Giove irradiava milioni di cavalli vapore sulla banda dei dieci metri. Si trattava soltanto di rumori caotici, insieme ad aloni di particelle cariche che ruotavano intorno al pianeta come le fasce di Van Allen sulla Terra, ma su scala molto più grande.
A volte, durante le ore di solitudine sul ponte di controllo, Bowman ascoltava questa radiazione. Aumentava il volume finché il locale non si colmava di un rombo crepitante e sibilante; da questo sfondo di strepito, a intervalli irregolari, emergevano brevi fischi e pigolamenti simili a strida di uccelli impazziti. Era un suono magico e irreale, perché non aveva niente a che vedere con l’uomo; era solitario e privo di significato come il mormorìo delle onde su una spiaggia o il rombo lontano del tuono di là dall’orizzonte.
Anche alla sua velocità attuale di oltre centosessantamila chilometri all’ora, la Discovery avrebbe impiegato quasi due settimane per attraversare le orbite di tutti i satelliti di Giove. Le lune che ruotavano intorno a Giove erano più numerose dei pianeti che ruotavano intorno al Sole; l’Osservatorio lunare ne stava scoprendo di nuove ogni anno, e il totale era ormai arrivato a trentasei. La più esterna, Giove XXVII, si muoveva all’indietro su un’orbita instabile, a trenta milioni di chilometri dal suo padrone temporaneo. Era la preda di un perpetuo tiro alla fune tra Giove e il Sole, in quanto il pianeta non faceva che catturare per breve tempo lune sottratte alla fascia di asteroidi, ma tornava a perderle dopo alcuni milioni di anni. Soltanto i satelliti interni costituivano una sua priorità definitiva; il Sole non avrebbe mai potuto strapparli alla sua presa.
Adesso esisteva una nuova preda per i contrastanti campi gravitazionali. La Discovery stava accelerando verso Giove lungo un’orbita complessa, calcolata alcuni mesi prima dagli astronomi sulla Terra e controllata costantemente da Hal. Di quando in quando intervenivano spinte minime e automatiche dei getti di controllo, appena percettibili a bordo della nave spaziale, per apportare regolazioni di precisione alla traiettoria.
Grazie al collegamento radio con la Terra, le informazioni raggiungevano quest’ultima come un flusso costante. Distavano ormai tanto dal loro pianeta che, anche viaggiando alla velocità della luce, i segnali impiegavano cinquanta minuti per compiere il viaggio. Sebbene il mondo intero stesse guardando oltre le loro spalle, e osservasse attraverso i loro occhi e i loro strumenti man mano che Giove si avvicinava, quasi un’ora trascorreva prima che le notizie delle scoperte giungessero sulla Terra.
Le macchine fotografiche telescopiche scattavano continuamente, mentre l’astronave intersecava l’orbita dei giganteschi satelliti interni, ognuno di essi più grande della Luna, ognuno di essi territorio ignoto. Tre ore prima di attraversarne l’orbita, la Discovery passò a soli trentaduemila chilometri da Europa e tutti gli strumenti vennero puntati sul mondo che andava avvicinandosi, mentre esso aumentava costantemente di dimensioni, si trasformava da globo a falce, e proseguiva rapido verso il Sole.
Ecco novantotto milioni di chilometri quadrati di suolo che fino a quel momento erano stati soltanto un puntino luminoso nel più potente dei telescopi. Sarebbero passati fulmineamente accanto a loro di lì a pochi minuti, e occorreva sfruttare al massimo l’incontro, registrando il maggior numero possibile di dati. Avrebbero poi avuto mesi di tempo durante i quali poterli riesaminare a piacere.
Da lontano Europa era sembrata una gigantesca palla di neve che riflettesse la luce del Sole remoto con considerevole efficienza. Le osservazioni ravvicinate confermarono la cosa; a differenza dalla polverosa Luna, Europa era di un bianco brillante e gran parte della sua superficie sembrava rivestita di enormi blocchi luccicanti, simili per l’aspetto a iceberg alla deriva. Quasi certamente erano formati di ammoniaca e acqua che il campo gravitazionale di Giove, in qualche modo, non era riuscito a catturare.
Soltanto lungo l’equatore era visibile nuda roccia; là si estendeva una terra di nessuno, una fascia più scura, incredibilmente accidentata, di canyon e di caotici macigni che avvolgeva completamente il piccolo mondo. Si scorgevano alcuni crateri da impatto, ma nessuna traccia di fenomeni vulcanici; Europa, ovviamente, non aveva mai posseduto alcuna sorgente interna di calore.
Esisteva, come si sapeva da tempo, una traccia di atmosfera. Quando l’orlo scuro del satellite passò davanti a una stella, quest’ultima si offuscò fuggevolmente prima dell’attimo dell’eclisse. E in certe zone si scorgeva un accenno di nubi… forse una nebbia di goccioline d’ammoniaca, sollevata da tenui venti di gas metano.