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Ma come, in nome di Dio? Mancava il tempo di risolvere l’interrogativo durante i dieci o quindici secondi di consapevolezza che gli rimanevano prima della riduzione a zero della pressione. Ma a un tratto Bowman ricordò qualcosa che uno dei progettisti dell’astronave gli aveva detto una volta, parlando dei dispositivi di sicurezza.

«Possiamo progettare un dispositivo sicuro contro gli incendi e la stupidità; ma non possiamo progettarne uno che sia sicuro contro la malizia deliberata…»

Bowman sbirciò per un attimo solo Whitehead, mentre usciva a fatica dal cubicolo. Non poteva esserne certo, ma gli parve che un barlume di coscienza fosse passato sulle fattezze ceree; forse una palpebra aveva guizzato appena. Ma ormai non poteva fare più nulla per Whitehead e per nessuno degli altri; doveva salvare se stesso.

Nel corridoio del tamburo ruotante, che si incurvava ripidamente, il vento ululava trascinando con sé indumenti, fogli di carta, provviste della cucina, piatti e tazze… tutto ciò che non era stato saldamente assicurato. Bowman ebbe appena il tempo di intravedere per un attimo il caos turbinoso, poiché tutte le lampade ammiccarono e si spensero ed egli venne a trovarsi circondato da una urlante oscurità.

Ma, quasi all’istante, si accesero le luci alimentate dalla batteria d’emergenza, illuminando la scena da incubo con un irreale splendore azzurrognolo. Anche senza di esse Bowman sarebbe riuscito a orientarsi nell’ambiente a lui così familiare, anche se adesso si era trasformato in modo orribile. Ciò nonostante, la luce fu una fortuna, perché gli consentì di evitare gli oggetti più pericolosi trascinati via dal vortice d’aria.

Tutto intorno a sé sentiva il tamburo ruotante sussultare e funzionare a fatica, sotto i pesi che variavano caoticamente. Temette che i cuscinetti a sfere potessero incepparsi; in tal caso il grande tamburo in movimento avrebbe fatto a pezzi l’astronave… ma anche questo era irrilevante… se non fosse arrivato in tempo nel rifugio di emergenza.

Già era difficile respirare; la pressione doveva essere ormai diminuita a meno di mezzo chilogrammo per centimetro quadrato. L’urlo dell’uragano stava diventando più debole man mano che esso perdeva la propria forza e l’aria troppo rarefatta non trasmetteva i suoni con la chiarezza di prima. I polmoni di Bowman faticavano come se egli si fosse trovato sulla vetta dell’Everest. Al pari di ogni uomo sano e opportunamente allenato, egli era in grado di sopravvivere nel vuoto per almeno un minuto… avendo il tempo di prepararsi. Ma non vi era stato alcun preavviso; poteva far conto soltanto sui normali quindici secondi di coscienza prima che il suo cervello fosse privato dell’ossigeno e sopravvenisse l’anossia.

Ma, anche in questo caso, avrebbe potuto ancora riprendersi completamente dopo essere rimasto per uno o due minuti nel vuoto… se fosse stato debitamente ricompresso; occorreva parecchio tempo prima che gli umori del corpo incominciassero a bollire nei loro ben protetti sistemi circolatori. Il primato di esposizione al vuoto era di quasi cinque minuti. Non si era trattato di un esperimento, ma di un salvataggio di emergenza, e la vittima, sebbene in parte paralizzata da embolie gassose, aveva potuto sopravvivere.

Comunque, tutto ciò non poteva servire a Bowman. Non v’era nessuno a bordo della Discovery che potesse ricomprimerlo. Doveva mettersi in salvo entro pochissimi secondi con i suoi stessi mezzi e senza alcun aiuto.

Fortunatamente, stava diventando più facile muoversi; l’aria rarefatta non poteva più investirlo e artigliarlo, né percuoterlo con proiettili volanti. Dopo la curva del corridoio v’era la gialla indicazione RIFUGIO D’EMERGENZA. Incespicò verso il rifugio, afferrò la maniglia del portello e la tirò verso di sé.

Per un attimo orribile pensò che fosse bloccato. Poi i cardini leggermente induriti cedettero ed egli cadde all’interno e si servì del peso del proprio corpo per chiudere il portello dietro di sé.

Il minuscolo cubicolo era grande appena quanto bastava per contenere un uomo e una tuta spaziale. Accanto al soffitto si trovava una bombola ad alta pressione verniciata di verde vivido, con l’indicazione OSSIGENO DI RISERVA. Bowman afferrò la corta leva applicata alla valvola, e con gli ultimi residui delle sue forze l’abbassò.

Il torrente benedetto di ossigeno fresco e puro si riversò nei suoi polmoni. Per un lungo momento rimase in piedi boccheggiante, mentre la pressione nello stanzino grande come un armadio a muro aumentava, facendosi sentire tutto intorno a lui. Non appena riuscì a respirare normalmente, chiuse la valvola. La bombola conteneva una quantità di ossigeno sufficiente appena per due situazioni del genere; avrebbe forse dovuto impiegarla ancora.

Una volta cessato il getto di ossigeno, il silenzio tornò a regnare improvviso. Ritto nel cubicolo, Bowman ascoltò attentamente. Anche il rombo fuori dal portello non si udiva più; l’astronave era vuota, tutta la sua atmosfera essendo stata risucchiata nello spazio.

Sotto i suoi piedi, la folle vibrazione del tamburo ruotante era cessata a sua volta; gli scuotimenti aerodinamici non si sentivano più e il tamburo ruotava adesso silenziosamente nel vuoto.

Bowman accostò l’orecchio alla parete del cubicolo, cercando di percepire altri rumori significativi attraverso le strutture metalliche della nave spaziale. Non sapeva che cosa aspettarsi, ma era disposto a credere quasi a ogni cosa, ormai. Non si sarebbe certo meravigliato sentendo la debole vibrazione ad alta frequenza dei propulsori, mentre la Discovery cambiava rotta; ma regnava soltanto il silenzio.

Sarebbe riuscito a sopravvivere lì, se lo avesse voluto, per circa un’ora… anche senza la tuta spaziale. Sembrava un peccato sciupare l’ossigeno inutilizzato nel piccolo locale, ma l’attesa non aveva alcuno scopo. Egli aveva già deciso che cosa bisognava fare; quanto più a lungo avesse rinviato, tanto più il compito sarebbe potuto essere difficile.

Dopo essersi infilato nella tuta e averne controllato l’integrità, lasciò sfuggire fuori dal cubicolo l’ossigeno residuo, uguagliando la pressione a entrambi i lati del portello. Esso si aprì facilmente nel vuoto e Bowman uscì sul tamburo ruotante ormai silenzioso. Soltanto la spinta immutata della sua spuria gravità lasciava capire che stava ancora ruotando. Era una fortuna, pensò Bowman, che non avesse cominciato a girare più in fretta; ma per il momento ciò costituiva il minore dei suoi crucci.

Le lampade d’emergenza continuavano a essere accese; egli era guidato inoltre dalla lampada incorporata nella tuta. Illuminò il corridoio curvo, mentre lo ripercorreva tornando verso l’hibernaculum e verso ciò che paventava di trovarvi.

Guardò dapprima Whitehead; un’occhiata bastò. Gli era sembrato che un ibernato non tradisse alcun segno di vita, ma ora capì di aver sbagliato. Sebbene fosse impossibile definirla, esisteva una differenza tra l’ibernazione e la morte. Le spie rosse e le tracce non più modulate sull’indicatore biosensorio non fecero che confermare quanto aveva già supposto.

La situazione era identica nel caso di Kaminski e di Hunter. Non li aveva mai conosciuti molto bene; non avrebbe potuto conoscerli mai più, ormai.

Si trovava solo su un’astronave senz’aria, in parte ingovernabile, le cui comunicazioni con la Terra erano state completamente interrotte. Non esisteva un altro essere umano entro un raggio di ottocento milioni di chilometri.

Eppure, in un altro senso molto reale, non rimaneva solo. Prima di potersi sentire al sicuro, doveva essere ancora più solo.

Prima di allora non era mai passato in assenza di peso attraverso il mozzo del tamburo ruotante indossando una tuta spaziale; lo spazio era minimo e si trattava di un’impresa difficile e spossante. Tanto per peggiorare la situazione, il passaggio circolare era ingombro di materiale rimastovi dopo la breve violenza del vortice che aveva svuotato l’astronave della sua atmosfera.