Questa consapevolezza lo aiutava in molti modi sottili. Si manteneva lindo e pulito; per quanto si sentisse stanco, non mancava mai di radersi. Il Controllo Missione, egli lo sapeva, lo stava tenendo attentamente d’occhio per scoprire i primi indizi di un comportamento anormale; Bowman era deciso a far sì che questa sorveglianza fosse inutile… almeno per quanto concerneva sintomi realmente gravi.
Si rendeva conto di alcuni mutamenti intervenuti nelle sue abitudini; sarebbe stato assurdo aspettarsi qualcosa di diverso in circostanze come quelle. Non riusciva più a sopportare il silenzio; tranne quando stava dormendo o parlando con la Terra mediante il collegamento radio, faceva funzionare l’impianto sonoro dell’astronave a un volume quasi dolorosamente alto.
A tutta prima, sentendo la necessità della compagnia di voci umane, aveva ascoltato le opere teatrali classiche… in particolare i drammi di Shaw, di Ibsen e di Shakespeare… oppure letture poetiche scelte nell’enorme nastroteca della Discovery. I problemi cui si riferivano il teatro e la poesia, però, sembravano talmente remoti, o risolvibili così facilmente con un po’’ di buon senso, che, dopo qualche tempo, egli se ne spazientì.
Pertanto passò all’opera lirica: di solito in italiano o in tedesco, per non essere distratto neppure da quel minimo contenuto intellettuale che poteva esservi nella maggior parte delle opere. Questa fase si protrasse per due settimane, dopo le quali Bowman si rese conto che il suono di tutte quelle voci superbamente educate poteva soltanto esacerbare la sua solitudine. Ma in ultimo, a porre termine a questo ciclo, fu la Messa di requiem di Verdi, che egli non aveva mai ascoltato sulla Terra. Il «Dies Irae», rombando con sinistra opportunità nella deserta nave spaziale, lo lasciò completamente sconvolto; e quando le trombe del Giudizio Universale echeggiarono dai cicli, non poté assolutamente più resistere.
In seguito, ascoltò soltanto musica sinfonica. Incominciò con i compositori romantici, ma rinunciò a essi a uno a uno, man mano che le loro musiche emotive divenivano troppo opprimenti. Sibelius, Ciajkowski, Berlioz resistettero per alcune settimane, Beethoven alquanto più a lungo. Infine Bowman trovò la serenità, com’era accaduto a molti altri, nelle architetture astratte di Bach, talora ornate da Mozart.
E così la Discovery continuò il suo viaggio verso Saturno, il più delle volte pervasa dalla fresca musica del clavicembalo, i pensieri congelati di un cervello divenuto polvere già da duecento anni.
Anche dall’attuale distanza di sedici milioni di chilometri, Saturno appariva già più grande della Luna come la si vede dalla Terra. Ad occhio nudo era uno spettacolo fantastico; veduto al telescopio, sembrava incredibile.
La sfera del pianeta sarebbe potuta essere scambiata per Giove in uno dei suoi momenti più tranquilli. V’erano le stesse fasce di nubi, anche se più pallide e meno distinte che in quell’altro mondo un po’’ più grande, e gli stessi turbini vasti come un continente che si spostavano adagio nell’atmosfera. Tuttavia, esisteva una differenza sorprendente tra i due pianeti; anche a prima vista, appariva ovvio che Saturno non era sferico. Era talmente appiattito ai poli che a volte dava l’impressione di una leggera deformità.
Ma la magnificenza degli anelli continuava a distogliere lo sguardo di Bowman dal pianeta; per la loro complessità di particolari e per la delicatezza delle sfumature, erano un universo di per sé. Oltre al grande varco principale tra gli anelli interni e quelli esterni, esistevano almeno altre cinquanta suddivisioni o confini, ove si notavano mutamenti ben distinguibili nella luminosità del gigantesco alone di Saturno. Si sarebbe detto che il pianeta fosse circondato da decine e decine di anelli concentrici, i quali si sfioravano tutti, ed erano tutti così sottili che avrebbero potuto essere ritagliati nel più impalpabile foglio di carta, il sistema di anelli faceva pensare a una delicata opera d’arte, a un giocattolo fragile che poteva essere ammirato, ma non toccato. Nonostante ogni sforzo della volontà, Bowman non riusciva a rendersi conto delle vere dimensioni di quel sistema e a convincersi che l’intero pianeta Terra, qualora si fosse trovato lì, sarebbe sembrato la sferetta di un cuscinetto a sfere che girasse intorno al perimetro di un piatto.
A volte una stella passava dietro gli anelli e perdeva allora soltanto un poco della sua luminosità. Continuava a splendere attraverso il loro materiale traslucido… anche se spesso ammiccava appena quando qualche pezzo più voluminoso dei frammenti in orbita la eclissava.
Gli anelli, infatti, come si sapeva sin dal diciannovesimo secolo, non erano compatti; questa sarebbe stata un’impossibilità meccanica. Consistevano di innumerevoli miriadi di frammenti: forse i resti di una luna che, dopo essersi avvicinata troppo, era stata fatta a pezzi dall’enorme forza di attrazione del pianeta. Comunque, quale che fosse la loro origine, il genere umano era stato fortunato ad aver veduto una simile meraviglia; essa sarebbe potuta esistere soltanto per un breve momento di tempo nella storia del sistema solare.
Sin dal 1945, un astronomo inglese aveva fatto rilevare che gli anelli erano effimeri; stavano agendo forze gravitazionali che ben presto li avrebbero distrutti.
Facendo quindi lo stesso ragionamento all’indietro nel tempo, ne conseguiva che essi erano stati creati soltanto di recente, appena due o tre milioni di anni prima.
Ma nessuno si era mai sognato di riflettere su una coincidenza curiosa; gli anelli di Saturno erano apparsi contemporaneamente al genere umano.
34. IL GHIACCIO IN ORBITA
La Discovery era ormai penetrata in profondità nel vasto sistema di lune, e lo stesso grande pianeta si trovava a meno di un giorno di distanza. L’astronave aveva varcato ormai da tempo il confine segnato dalla più esterna Febe, che ruotava in senso retrogrado lungo un’orbita follemente eccentrica, a dodici milioni di chilometri dal suo pianeta. Davanti all’astronave si trovavano ora Giapeto, Iperione, Titano, Rea, Dione, Teti, Encelado, Miniante e Giano… nonché gli anelli. Tutti i satelliti rivelavano al telescopio un labirinto di particolari superficiali, e Bowman aveva trasmesso alla Terra tutte le fotografie che era riuscito a scattare. Il solo Titano, che, con un diametro di quattromilaottocento chilometri era grande quanto il pianeta Mercurio, avrebbe tenuto impegnato per mesi un gruppo di ricognizione; Bowman poté rivolgere a esso, e a tutti i suoi compagni, soltanto il più fuggevole degli sguardi. Non occorreva niente di più; egli era già assolutamente certo che Giapeto fosse effettivamente la sua mèta.
Tutti gli altri satelliti erano butterati da alcuni crateri di meteoriti, sebbene questi ultimi fossero di gran lunga meno numerosi che su Marte, e vi si vedevano disposizioni in apparenza casuali di ombre e di luci, nonché, qua e là, alcuni punti luminosi, consistenti, con ogni probabilità, di animassi di gas gelato. Il solo Giapeto possedeva una geografia ben distinta, e una geografia, invero, assai strana.
Un emisfero del satellite che, al pari dei suoi compagni, voltava sempre la stessa faccia verso Saturno, era estremamente buio e lasciava intravedere ben pochi particolari superficiali. In netto contrasto, l’altro emisfero era dominato da un brillante ovale bianco, lungo circa centosessanta chilometri e largo trecentoventi. In quel momento, soltanto una parte della così sorprendente formazione veniva illuminata dalla luce del giorno, ma il motivo delle straordinarie variazioni di luminosità di Giapeto appariva ormai del tutto ovvio. Sul lato ovest dell’orbita della luna, la vivida ellisse era rivolta verso il Sole… e la Terra. Sul lato est dell’orbita, l’ovale rimaneva rivolto nella direzione opposta, e si poteva osservare soltanto l’emisfero che rifletteva fiocamente la luce.