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La grande ellisse era perfettamente simmetrica e si trovava a cavallo dell’equatore di Giapeto, con il suo asse maggiore orientato verso i poli; aveva orli così netti da dare quasi l’impressione che qualcuno avesse molto accuratamente verniciato un enorme ovale bianco sulla superficie della piccola luna. Appariva completamente piatta, e Bowman si domandò se non potesse trattarsi di un lago di liquido ghiacciato… anche se ciò difficilmente avrebbe potuto spiegare il suo stupefacente aspetto artificiale.

Ma gli rimase ben poco tempo per studiare Giapeto, mentre l’astronave si addentrava nel cuore del sistema di Saturno, poiché il momento culminante del viaggio, l’ultima manovra di perturbazione della Discovery, andava avvicinandosi rapidamente. Rasentando Giove, la nave spaziale aveva sfruttato il campo gravitazionale del pianeta per aumentare la velocità. Ora doveva fare l’opposto; doveva diminuire il più possibile la propria velocità per non sottrarsi al sistema solare continuando così il volo verso le stelle. La sua orbita attuale era stata studiata in modo da intrappolarla, affinché essa divenisse un’altra luna di Saturno e continuasse a oscillare avanti e indietro lungo una stretta ellisse lunga tre milioni e duecentomila chilometri. Nel punto più vicino avrebbe quasi sfiorato il pianeta; in quello più lontano, avrebbe toccato l’orbita di Giapeto.

I calcolatori sulla Terra, sebbene le loro informazioni giungessero sempre con tre ore di ritardo, avevano assicurato a Bowman che tutto era in ordine. Velocità e altezza risultavano esatte; non rimaneva null’altro da fare, fino al momento del massimo avvicinamento.

L’immenso sistema di anelli si estendeva ormai attraverso tutto il firmamento e già l’astronave stava passando sul suo margine estremo. Contemplando gli anelli dall’altezza di circa sedicimila chilometri, Bowman poté constatare, attraverso il telescopio, che erano formati in vasta misura di ghiaccio, splendente e scintillante alla luce del Sole. Si sarebbe detto che avesse sorvolato una tormenta di neve, la quale di quando in quando cessava rivelando, là ove avrebbe dovuto trovarsi il suolo, deludenti squarci di notte e di stelle.

Mentre la Discovery seguiva una traiettoria curva, ancor più vicina a Saturno, il Sole calò adagio verso i multipli archi degli anelli. Ormai erano divenuti un esile ponte argenteo che scavalcava l’intero firmamento; sebbene fossero troppo tenui e offuscassero appena la luce del Sole, le loro miriadi di cristalli rifrangevano e disperdevano quest’ultima dando luogo ad abbacinanti spettacoli pirotecnici. E mentre il Sole passava dietro alle fasce, larghe milleseicento chilometri, di ghiaccio in orbita, pallidi spettri dell’astro si spostavano e si fondevano nel firmamento, e i cieli erano colmi di lampi e bagliori mutevoli. Poi il Sole calò dietro gli anelli, per cui essi lo incorniciarono con i loro archi, e i fuochi artificiali celesti cessarono.

Poco tempo dopo, la nave spaziale entrò nell’ombra di Saturno mentre arrivava nel punto più vicino all’emisfero del pianeta su cui regnava la notte. In alto splendevano le stelle e gli anelli; in basso si stendeva un mare di nubi appena visibile. Non si scorgevano affatto i misteriosi ricami di luce che avevano avvampato nella notte gioviana; forse Saturno era troppo freddo per simili spettacoli. Lo screziato paesaggio di nubi era rivelato soltanto da un bagliore spettrale riflesso dagli iceberg in orbita, tuttora illuminati dal Sole nascosto. Ma al centro dell’arco esisteva un ampio varco scuro, simile alla luce centrale di un ponte incompiuto, là ove il cono d’ombra del pianeta oscurava gli anelli.

Il contatto radio con la Terra si era interrotto e non avrebbe potuto essere ripreso fino a quando l’astronave non fosse emersa da dietro la mole di Saturno. Fu forse un bene che Bowman fosse troppo occupato, in quel momento, per pensare alla sua solitudine improvvisamente sottolineata; nelle poche ore successive, ogni secondo sarebbe stato impegnato mentre egli eseguiva le manovre di frenaggio, già programmate dai calcolatori terrestri.

Dopo mesi di inattività i getti principali incominciarono a espellere le cateratte, lunghe alcuni chilometri, di plasma luminoso. La gravità tornò, sia pure fuggevolmente, nel mondo senza peso del ponte di controllo. E centinaia di chilometri più in basso le nubi di metano e di ammoniaca congelata rifulsero di una luce che non avevano mai conosciuto prima di allora, mentre la Discovery saettava, splendente e minuscolo sole, attraverso la notte di Saturno.

Infine, dinanzi all’astronave, emerse la pallida alba; la Discovery, che si spostava ora sempre e sempre più adagio, stava giungendo nella luce del giorno. Non sarebbe più potuta sfuggire al Sole, e nemmeno a Saturno… ma continuava a muoversi abbastanza velocemente per sollevarsi rispetto al pianeta fino a sfiorare l’orbita di Giapeto, lontana tre milioni e duecentomila chilometri.

La Discovery avrebbe impiegato quattordici giorni per compiere quell’ascesa mentre, una volta di più, tagliava, anche se nella direzione opposta, le orbite di tutte le lune interne. A una a una avrebbe intersecato le orbite di Giano, Miniante, Encelado, Teti, Dione, Rea, Titano, Iperione… mondi ai quali erano stati dati i nomi di dèi e di dee scomparsi appena ieri, in base al metro con cui veniva misurato il tempo lassù.

Poi avrebbe incontrato Giapeto, per il suo rendezvous nello spazio. Se non vi fosse riuscita, sarebbe ricaduta verso Saturno per ripercorrere all’infinito l’ellissi di ventotto giorni.

Qualora la Discovery avesse dovuto fallire in quel tentativo, non vi sarebbe più stata alcuna possibilità di un secondo rendezvous. Al suo ritorno in quel punto, Giapeto si sarebbe trovato lontanissimo, quasi al lato opposto di Saturno.

Era vero che si sarebbero incontrati di nuovo e che le orbite della nave spaziale e del satellite si sarebbero intersecate una seconda volta. Ma quell’appuntamento era lontano di un così gran numero di anni che, qualunque cosa potesse accadere, Bowman sapeva di non poter essere presente.

35. L’OCCHIO DI GIAPETO

Quando Bowman aveva osservato per la prima volta Giapeto, la curiosa chiazza ellittica di luminosità si era trovata in parte in ombra, illuminata soltanto dalla luce di Saturno; ora, mentre la Luna si spostava adagio lungo la sua orbita di settantanove giorni, l’ovale stava emergendo nella piena luce del giorno.

Osservandolo espandersi, man mano che la Discovery si sollevava sempre e sempre più pigramente verso il suo inevitabile appuntamento, Bowman divenne conscio di una sconvolgente ossessione. Non vi aveva mai accennato nelle sue conversazioni, o meglio nei suoi regolari commenti, con il Controllo Missione, perché sarebbe potuto sembrare che soffrisse già di allucinazioni.

Forse era effettivamente così; infatti, si era quasi persuaso che la brillante ellissi splendente contro lo sfondo scuro del satellite fosse un enorme e vacuo occhio intento a fissarlo, mentre si avvicinava. Era un occhio senza pupilla, poiché in nessun punto egli riusciva a scorgere qualcosa che ne turbasse la perfetta uniformità.

Soltanto quando l’astronave si trovò ad appena ottantamila chilometri di distanza, e quando Giapeto era due volte più grande della familiare Luna della Terra, egli notò il minuscolo puntino nero al centro esatto dell’ellissi.

Ma mancò il tempo, allora, per ogni esame particolareggiato; doveva ormai occuparsi delle manovre terminali.

Per l’ultima volta, il motore principale della Discovery liberò le proprie energie. Per l’ultima volta la furia incandescente di atomi morenti avvampò tra le lune di Saturno. In David Bowman, il lontano bisbiglio e la crescente spinta dei getti causò una sensazione d’orgoglio… e di tristezza. I superbi motori avevano compiuto il loro dovere con impeccabile efficienza. Erano riusciti a portare l’astronave dalla Terra a Giove e a Saturno; questa era ormai l’ultimissima volta in cui avrebbero funzionato. Una volta che la Discovery avesse vuotato i serbatoi di propellente, sarebbe stata indifesa e inerte come ogni cometa e ogni asteroide, prigioniera senza scampo della gravitazione. Anche quando l’astronave di soccorso fosse arrivata, di lì ad alcuni anni, non sarebbe stato economico rifornirla, in modo che potesse tornare sulla Terra. Sarebbe rimasta un monumento eternamente in orbita, destinato a ricordare i primi tempi delle esplorazioni planetarie.