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La Nana Bianca si abbassava rapidamente verso l’orizzonte, seguendo velocissima la sua orbita; pochi attimi dopo lo toccò, lo incendiò e scomparve. Un falso crepuscolo discese sull’inferno sottostante e, nell’improvviso cambiamento di luce, Bowman si accorse che qualcosa stava accadendo nello spazio intorno a lui.

Il mondo del sole rosso parve incresparsi, come se egli lo avesse guardato attraverso acqua corrente. Per un momento si domandò se non si trattasse di un effetto di rifrazione, causato forse dal passaggio di un’onda d’urto insolitamente violenta attraverso l’atmosfera tormentata nella quale era immerso.

La luce stava dileguando; si sarebbe detto che stesse per scendere un secondo crepuscolo. Involontariamente, Bowman guardò in alto, poi, sonnacchiosamente, corresse se stesso ricordando che lì la principale sorgente di luce non era il cielo, ma il mondo fiammeggiante sotto di lui.

Parve che le pareti di qualche materiale simile a vetro affumicato si stessero ispessendo intorno a lui, escludendo il rosso bagliore e oscurando lo scenario, che divenne sempre e sempre più buio; anche il rombo sommesso degli uragani solari si attenuò. La capsula galleggiava nel silenzio e nella notte. Un momento dopo vi fu il più sommesso dei tonfi, mentre si posava su una superficie dura e si fermava.

Su che cosa si era fermata? si domandò Bowman, incredulo. Poi la luce tornò; e l’incredulità cedette il posto a una disperazione che gli strinse il cuore… poiché, vedendo quanto lo circondava, si rese conto che doveva essere impazzito.

Era preparato, si disse, a qualsiasi prodigio. La sola cosa che non si sarebbe mai aspettato era la più assoluta banalità.

La capsula poggiava sul pavimento lucidato di un elegante e anonimo appartamento d’albergo che si sarebbe potuto trovare in qualsiasi grande città della Terra. Egli stava contemplando un soggiorno nel quale si trovavano un tavolino da caffè, un divano, una dozzina di sedie, uno scrittoio, varie lampade, una libreria riempita a mezzo di volumi, con alcune riviste posate su di essa, e persino un vaso di fiori. A una parete figurava Il ponte di Arles, di van Gogh; a un’altra Il mondo di Cristina, di Vyeth. Egli fu certo che, aprendo il cassetto di quella scrivania, vi avrebbe trovato una Bibbia…

Se davvero era pazzo, le sue allucinazioni sembravano mirabilmente organizzate. Tutto era assolutamente reale, e nulla scompariva quando voltava le spalle. Il solo oggetto assurdo in quello scenario, e senz’altro vistosissimo, era la capsula.

Per molti minuti, Bowman non si mosse dal sedile. Si era quasi aspettato che la visione intorno a lui scomparisse; invece continuò a restare concreta come tutto ciò che aveva visto in vita sua.

Era davvero reale… oppure si trattava di un fantasma dei sensi evocato così superbamente che non esisteva il modo di distinguerlo dalla realtà. Forse si trattava di una specie di esperimento; in tal caso, non soltanto il suo destino, ma anche quello del genere umano potevano benissimo dipendere da come egli avrebbe reagito nei prossimi minuti.

Avrebbe potuto rimanere seduto dov’era e aspettare che qualcosa accadesse, oppure gli sarebbe stato possibile aprire la capsula e uscirne per accertare se la scena dalla quale era circondato fosse reale. Il pavimento sembrava essere solido; per lo meno, stava sopportando il peso della capsula. Non era probabile che lui vi affondasse… di qualunque cosa potesse trattarsi.

Ma rimaneva pur sempre l’interrogativo dell’aria; per quanto ne sapeva lui, quella stanza poteva trovarsi nel vuoto, o contenere un’atmosfera velenosa. Gli parve molto improbabile: nessuno si sarebbe dato tanta pena senza provvedere a un particolare così essenziale; ma non intendeva esporsi a rischi inutili. In ogni caso, gli anni di addestramento lo rendevano diffidente della contaminazione; era riluttante a esporsi a un pericolo ignoto, fino a quando non fosse stato certo che non rimanevano altre alternative. Quel luogo sembrava una camera d’albergo in qualche località degli Stati Uniti. Ma ciò non modificava il fatto che, in realtà, egli doveva trovarsi a centinaia di anniluce dal sistema solare.

Chiuse il casco della tuta, sigillandovisi dentro, quindi azionò l’apertura automatica del portello della capsula. Si udì il sibilo breve dell’equalizzazione della pressione; poi egli uscì nella stanza.

A quanto poteva capire, si trovava in un normalissimo campo di gravità. Alzò un braccio, poi lo lasciò cadere liberamente. Andò a urtare contro il suo fianco in meno di un secondo.

Ciò fece sì che tutto sembrasse doppiamente irreale. Indossava una tuta spaziale ed era in piedi, mentre avrebbe dovuto funzionare a dovere soltanto in assenza di gravità. Tutti i suoi normali riflessi di astronauta erano sconvolti; doveva riflettere prima di compiere qualsiasi movimento.

Simile a un uomo in stato di trance, avanzò adagio dalla metà della stanza nuda e non arredata in cui si trovava, all’altra metà. Non scomparve, come si era quasi aspettato, mentre si avvicinava, ma rimaneva perfettamente reale… e in apparenza del tutto solida.

Si fermò accanto al tavolino da caffè. Su di esso si trovava un normale videotelefono sistema Bell, con tanto di elenco telefonico locale. Si chinò e prese il volume con le goffe mani guantate.

Nei caratteri familiari che aveva veduto migliaia di volte lesse il nome WASHINGTON D. C.

Esaminò allora l’elenco più da vicino; e, per la prima volta, ebbe la prova obiettiva del fatto che, anche se tutto ciò poteva essere reale, non si trovava sulla Terra.

Riusciva a leggere soltanto la parola Washington; il rimanente testo a stampa era offuscato, come se fosse stato copiato dalla fotografia oli un giornale. Aprì l’elenco a caso e ne sfogliò le pagine. Erano tutti fogli bianchi di una sostanza lievemente increspata e biancastra che senza dubbio non era carta, anche se le somigliava moltissimo. Alzò il ricevitore del telefono e lo premette contro la plastica del casco. Se vi fosse stato il segnale di linea libera, avrebbe potuto udirlo attraverso il materiale conduttore. Ma, come si era aspettato, udì soltanto il silenzio.

Sicché… era tutta una finzione, anche se fantasticamente accurata. E ovviamente non aveva lo scopo di ingannarlo, ma piuttosto, o almeno lo sperò, di rassicurarlo. Era questa una riflessione molto consolante; ciò nonostante, non si sarebbe tolto la tuta fino a quando non avesse completato l’esplorazione.

Tutti i mobili sembravano abbastanza robusti e solidi; provò le sedie e sostennero il suo peso. Ma i cassetti dello scrittoio non vollero aprirsi; erano finti.

Finti erano inoltre i libri e le riviste; come nel caso dell’elenco telefonico, si potevano leggere soltanto i titoli. Quei volumi formavano una strana biblioteca… si trattava, quasi soltanto, di bestseller piuttosto insignificanti, con alcuni testi di divulgazione sensazionali, e alcune autobiografie cui era stata fatta molta pubblicità. Tutti quei libri risalivano ad almeno tre anni prima e avevano un ben scarso contenuto intellettuale. Non che la cosa importasse, perché non potevano nemmeno essere tolti dagli scaffali.

V’erano due porte che si aprirono abbastanza facilmente. La prima lo condusse in una piccola, ma comoda camera da letto, con uno scrittoio, due sedie, interruttori della luce che funzionavano effettivamente e un armadio per i vestiti. Bowman aprì quest’ultimo e vide quattro abiti, una veste da camera, una dozzina di camicie bianche e parecchi capi di biancheria, il tutto appeso in bell’ordine alle grucce.

Prese uno dei vestiti e lo osservò attentamente. A quanto poté giudicare con le mani guantate, era fatto di una stoffa più simile a pelliccia che a lana; era inoltre un po’’ fuori moda; sulla Terra, da almeno quattro anni, nessuno aveva più indossato giacche a un solo petto.