Era un indizio dei tempi il fatto che un sovietico potesse scherzare, per quanto obliquamente, sul trattamento riservato dal suo paese al più grande scienziato russo. Floyd rammentò, una volta di più, l’eloquente discorso pronunciato da Sakharov all’Accademia, quando, tardivamente, egli era stato nominato Eroe dell’Unione Sovietica. La prigione e l’esilio, aveva detto ai suoi ascoltatori, erano splendidi incentivi alla creatività; non pochi capolavori erano stati concepiti tra le mura di una cella, lontano dalle distrazioni del mondo. Del resto, il più grande, singolo conseguimento dell’intelletto umano, gli stessi Principia, lo si doveva all’esilio che Newton si era autoimposto da Londra, ove imperversava la peste.
Non si trattava di un paragone immodesto; dagli anni trascorsi a Gorky erano scaturiti non soltanto nuovi approfondimenti per quanto concerneva la struttura della materia e l’origine dell’universo, ma anche i nuovi concetti relativi al controllo del plasma, che avevano reso possibile lo sfruttamento pratico dell’energia termonucleare. Lo stesso propulsore, sebbene fosse il risultato più noto e più reclamizzato di tali scoperte, era soltanto un sottoprodotto di quello stupefacente conseguimento intellettuale. La tragedia consisteva nel fatto che simili progressi fossero stati facilitati dall’ingiustizia; un giorno, forse, l’umanità avrebbe trovato modi più civili per tutelare il proprio interesse.
Quando uscirono dal reparto motori, Floyd aveva imparato più cose del propulsore Sakharov di quante volesse in realtà sapere o potesse aspettarsi di ricordare. Conosceva bene i princìpi fondamentali l’impiego della reazione nucleare pulsante per riscaldare ed espellere Virtualmente qualsiasi materiale propellente. I migliori risultati li si otteneva con l’idrogeno puro come fluido operante, ma l’idrogeno era un gas eccessivamente voluminoso e difficile da conservare per lunghi periodi di tempo. Il metano e l’ammoniaca costituivano alternative accettabili; persino l’acqua poteva essere impiegata, anche se con una resa considerevolmente inferiore.
Sulla Leonov si era addivenuti a un compromesso; gli enormi serbatoi di idrogeno liquido che fornivano la spinta iniziale sarebbero stati abbandonati non appena l’astronave avesse raggiunto la velocità necessaria per portarla fino a Giove. Una volta raggiunta la mèta, sarebbe stata impiegata l’ammoniaca per le manovre di frenaggio e di attracco, e per l’eventuale ritorno sulla Terra.
Questa era la teoria, controllata e ricontrollata mediante innumerevoli prove e simulazioni con il computer. Ma, come aveva dimostrato la sfortunata Discovery, tutti i progetti umani erano assoggettati alla spietata revisione della natura, o del Fato, o comunque si volessero denominare i poteri celati dietro l’universo.
«Ah, sicché lei è qui, dottor Floyd» disse un’autoritaria voce femminile, interrompendo Vasili, che spiegava entusiasticamente il feedback magnetoidrodinamico. «Perché non si è presentato a me?»
Floyd ruotò adagio sul proprio asse, grazie al movimento torcente impresso dalla lieve spinta di una mano. Scorse una sagoma massiccia e materna che indossava un curioso camice adorno da decine di tasche e borse; l’effetto non era dissimile da quello di un soldato cosacco drappeggiato con cartucciere.
«Lieto di incontrarla di nuovo, dottoressa. Sto ancora esplorando… spero che abbia ricevuto la mia cartella clinica da Houston.»
«Quei veterinari del Teague! Credo che non saprebbero diagnosticare nemmeno l’afta epizootica!»
Floyd sapeva benissimo che esisteva reciproco rispetto tra Katerina Rudenko e il Centro Medico Olin Teague e pertanto l’ampio sorriso con il quale la dottoressa smentì le proprie parole fu superfluo. Ella notò lo sguardo apertamente curioso di lui e, non senza fierezza, tastò l’armamentario che portava intorno alla larga vita.
«Il borsetto nero convenzionale non è molto pratico con gravità zero gli oggetti ne escono galleggiando e, quando ti occorrono, non li trovi. È un’idea mia, questa; si tratta di un’attrezzatura per piccoli interventi chirurgici. Con gli strumenti che ho potrei operare di appendicite, o far venire al mondo un bimbo.»
«Ritengo che quest’ultima evenienza non si verificherà a bordo della Leonov.»
«Ah! Un buon medico deve essere pronto a tutto.»
Quale contrasto, pensò Floyd, tra la comandante Orlova e la dottoressa Rudenko! Tanya Orlova aveva la grazia e l’intensità espressiva di una prima ballerina; la dottoressa sarebbe potuta essere il prototipo della Madre Russia… tarchiata, con un viso piatto da contadina, le mancava soltanto uno scialle affinché il quadro fosse completo. Non lasciarti trarre in inganno dall’aspetto, si disse Floyd. Questa è la donna che ha salvato almeno una dozzina di vite quando vi è stato l’incidente di attracco della Komarov… e, nei momenti liberi, riesce anche a dirigere la pubblicazione Annali di medicina spaziale. Considerati molto fortunato perché si trova a bordo.
«E ora, dottor Floyd, avrà tutto il tempo in seguito di esplorare la nostra piccola astronave. I miei colleghi sono troppo compiti per dirlo, ma hanno del lavoro da sbrigare, e lei è d’intralcio. Vorrei ibernare lei e i suoi compagni al più presto possibile. Dopodiché avremo minori motivi di preoccupazione.»
«Lo temevo, ma mi rendo perfettamente conto del suo punto di vista. Sono pronto, non appena lo sarà lei.»
«Io sono sempre pronta. Venga… la prego.»
L’infermeria dell’astronave era grande appena quanto bastava per contenere il tavolo operatorio, due biciclette da palestra, alcuni armadi di strumenti e l’apparecchio per le radiografie. Mentre la dottoressa Rudenko stava sottoponendo Floyd a un rapido, ma accurato esame, gli domandò, inaspettatamente: «Che cos’è il cilindretto d’oro che il dottor Chandra porta al collo, appeso a una catenina… qualche aggeggio per le comunicazioni? Non ha voluto toglierselo… in effetti, è tanto timido che non si sarebbe voluto togliere quasi nulla.»
Floyd non poté fare a meno di sorridere: era facile immaginare le reazioni del pudico indiano a quella donna alquanto invadente.
«È un lingam.»
«Un che?»
«La dottoressa è lei… avrebbe dovuto riconoscerlo. È il simbolo della fecondità maschile.»
«Ma certo… quanto sono stata stupida. È un indù praticante il dottor Chandra? Sarebbe un po’’ tardi se ci richiedesse una dieta strettamente vegetariana.»
«Non si preoccupi… se così fosse vi avremmo avvertiti tempestivamente. Sebbene non beva alcolici, Chandra non è fanatico per nessuna cosa, eccettuati i computer. Mi ha detto una volta che suo nonno era sacerdote a Benares e gli diede quel lingam… appartiene alla famiglia da generazioni.»
Non senza un certo stupore da parte di Floyd, la dottoressa Rudenko non reagì negativamente come egli si era aspettato; anzi, l’espressione di lei divenne malinconica.
«Capisco i suoi sentimenti. Mia nonna mi fece dono di una meravigliosa icona… del sedicesimo secolo. Avrei voluto portarla a bordo… ma pesa cinque chilogrammi.»
La dottoressa tornò bruscamente alle cose pratiche, fece a Floyd un’iniezione indolore, servendosi di una siringa ipodermica azionata da un gas, e gli disse di tornare da lei non appena si fosse sentito sonnacchioso. Questo, gli assicurò, sarebbe accaduto entro meno di due ore.
«Nel frattempo, si rilassi completamente» gli ordinò. «C’è un oblò di osservazione a questo piano… il Posto di guardia D.6. Perché non si reca là?»
Sembrava una buona idea e Floyd galleggiò via, nella gravità zero, con una docilità che avrebbe stupito i suoi amici. La dottoressa Rudenko consultò l’orologio, dettò un breve appunto alla segreteria automatica e la predispose per la suoneria di allarme di lì a trenta minuti.
Quando giunse all’oblò D.6, Floyd vide che Chandra e Curnow si trovavano già lì. Lo sbirciarono con una totale assenza di riconoscimento nello sguardo, poi tornarono a contemplare l’imponente spettacolo esterno. Accadde di pensare a Floyd ed egli si congratulò con se stesso per un’osservazione così brillante che Chandra non poteva godersi, in realtà, il panorama. Aveva già gli occhi strettamente chiusi.