«Non è necessario ricorrere ai delfini» intervenne Max Brailovsky. «Uno dei più brillanti ingegneri del mio corso venne attratto da una bionda di Kiev. L’ultima volta che ebbi sue notizie, lavorava in un’autorimessa. E sì che era stato decorato con la medaglia d’oro per aver progettato basi spaziali. Quale spreco!»
Anche se la creatura veduta su Europa dal dottor Chang era intelligente, questo, naturalmente, non escludeva l’esistenza di altre forme superiori altrove. La biologia di un intero mondo non poteva essere valutata in base a un unico esemplare.
Molti tuttavia avevano sostenuto che forme di intelligenza progredite non si sarebbero mai potute evolvere nel mare; non esistevano sfide sufficienti in un ambiente così benevolo e immutabile. E, soprattutto, come avrebbero mai potuto, forme di vita marine, dar luogo a una tecnologia senza l’apporto del fuoco?
Eppure, forse anche questo poteva essere possibile: la via percorsa dall’umanità non era la sola. Nei mari di altri mondi si sarebbero potute trovare intere civiltà.
Ciò nonostante, sembrava improbabile che una cultura capace di viaggi nello spazio potesse essere sorta su Europa senza lasciare indizi inequivocabili della propria esistenza sotto forma di edifici, impianti scientifici, basi di lancio, o altre costruzioni. E invece, da un polo all’altro, non si vedeva altro che ghiaccio e qualche raro affioramento di nuda roccia.
Ma poi non rimase più tempo per le supposizioni e le discussioni quando la Leonov si lasciò indietro le orbite di Io e della minuscola Mimas. L’equipaggio venne ad essere impegnato per la preparazione dell’incontro e per il breve periodo di peso dopo mesi trascorsi in caduta libera. Tutti gli oggetti mobili dovettero essere bloccati prima che l’astronave penetrasse nell’atmosfera di Giove e l’effetto della decelerazione desse luogo a culmini momentanei i quali sarebbero potuti equivalere alla gravità due.
Floyd fu fortunato; lui solo ebbe il tempo di ammirare lo spettacolo superbo del pianeta che si avvicinava, e che colmava ormai quasi una metà del cielo. Poiché non esisteva nulla a cui paragonarlo, per farsi un’idea delle dimensioni, la mente non riusciva ad afferrarne la vera immensità. Floyd doveva continuare a ripetere a se stesso che cinquanta globi terrestri non sarebbero riusciti a coprire l’emisfero rivolto verso di lui.
Le nubi, colorate come i più sfarzosi tramonti terrestri, correvano con una rapidità tale che egli riusciva a scorgere movimenti percettibili in un intervallo di tempo breve come dieci minuti. Immensi vortici si formavano continuamente lungo la dozzina circa di fasce che avvolgevano il pianeta, e svanivano, poi, simili a turbine di fumo. Pennacchi di gas bianco scaturivano talora, simili a geyser, dalle profondità, per essere ben presto spazzati via dalle tempeste dovute alla tremenda velocità di rotazione del pianeta. E più strane di ogni altra cosa erano le macchie bianche, talora intervallate con la stessa regolarità delle perle di una collana, disposte lungo i venti alisei delle medie latitudini gioviane.
Nelle ore che precedettero immediatamente l’incontro, Floyd vide poco la comandante e l’ufficiale di rotta. Gli Orlov non si allontanavano quasi mai dal ponte di volo, in quanto controllavano continuamente l’orbita di avvicinamento e apportavano minuscole modifiche alla traiettoria della Leonov. L’astronave si trovava adesso sull’orbita critica che avrebbe appena sfiorato l’atmosfera esterna; se fosse passata troppo in alto, il frenaggio dell’attrito non sarebbe stato sufficiente per rallentarla, ed essa avrebbe continuato ad allontanarsi dal sistema solare, al di là di ogni possibilità di salvezza. Se avesse rallentato troppo, sarebbe bruciata come una meteora. Tra i due estremi si trovava un margine ben scarso per errori. I cinesi avevano dimostrato che il frenaggio atmosferico era possibile, ma esisteva sempre la possibilità che qualcosa andasse storto. Pertanto Floyd non si stupì affatto quando il medico, Rudenko, ammise, un’ora esatta prima del contatto: «Sto cominciando ad augurarmi, Woody, di avere portato con me quell’icona, tutto sommato.»
14. DUPLICE INCONTRO
«… i documenti del mutuo sulla casa a Nantucket dovrebbero trovarsi nella cartella segnata M, in biblioteca.
«Bene, non mi viene in mente altro per quanto concerne le questioni pratiche. Da un paio d’ore a questa parte ho continuato a ricordare un’illustrazione che vidi da ragazzo, in un malconcio volume d’arte vittoriana — doveva essere antico di quasi centocinquant’anni. Non riesco a ricordare se l’illustrazione fosse in bianco e nero o a colori. Ma non dimenticherò mai la dicitura — non ridere — che era questa: «L’ultimo messaggio a casa». I nostri bisnonni amavano questo genere di melodrammaticità sentimentaleggiante.
«Nell’illustrazione si vedeva un veliero mercantile investito dall’uragano — le vele erano state strappate via dalle raffiche e il ponte era sommerso dalle ondate. Sullo sfondo l’equipaggio stava lottando per salvare la nave. E, in primo piano, un giovane mozzo stava scrivendo un biglietto avendo accanto a sé la bottiglia entro la quale sperava che il biglietto potesse arrivare a terra.
«Sebbene fossi allora appena un bimbetto, sentii che avrebbe dovuto dare una mano agli altri marinai invece di scrivere lettere. Ciò nonostante, la scena mi commosse; e non mi passò mai per la mente che un giorno sarei stato come quel marinaio.
«Naturalmente, sono certo che riceverai queste mie parole… e non posso far niente per aiutare gli altri a bordo della Leonov. Sono stato, anzi, cortesemente invitato a togliermi dai piedi e pertanto ho la coscienza perfettamente tranquilla mentre sto dettando questo messaggio.
«Ora lo manderò sul ponte di volo perché tra un quarto d’ora interromperemo le trasmissioni, avvicinandoci al grande disco, e chiuderemo tutti i portelli di boccaporto — eccoti un’altra piacevole analogia marinaresca! Giove sta adesso colmando il cielo — non cercherò di descriverlo e non potrò contemplarlo ancora a lungo in quanto tra pochi minuti rimarremo ciechi. In ogni modo, le nostre telecamere possono fare di gran lunga meglio di me.
«Arrivederci, mio tesoro, e il mio affetto a tutti voi… specie a Chris. Quando riceverai questa comunicazione, tutto sarà già finito, in un modo o nell’altro. Ricorda che ho cercato di fare del mio meglio per il bene di ognuno di noi… arrivederci.»
Dopo avere tolta la scheda audio, Floyd si recò al centro comunicazioni e la consegnò a Sascia Kovalev. «La prego, si accerti che parta prima della chiusura delle trasmissioni» disse, serio.
«Non si preoccupi. Sto ancora trasmettendo su tutti i canali e ci rimangono dieci minuti buoni di tempo.»
Porse la mano. «Se è destino che dobbiamo rivederci… be’, sorrideremo. Altrimenti questa separazione sarà stata come si conviene.»
Floyd batté le palpebre.
«Shakespeare, presumo?»
«Naturalmente. Bruto e Cassio prima della battaglia. Ci vediamo dopo.»
Tanya e Vasili si concentravano troppo sugli schermi con i dati della situazione per poter rivolgere a Floyd più di un cenno di saluto, ed egli tornò nella sua cabina. Si era già congedato da tutti gli altri dell’equipaggio; non restava altro da fare che aspettare. Il lettino, simile a un sacco a pelo, era già appeso in vista del ritorno della gravità, quando la decelerazione avesse avuto inizio, e a lui non sarebbe restato altro da fare che infilarvisi…
«Antenne ritratte, tutti gli schermi protettivi su» annunciò l’altoparlante delle comunicazioni interne. «Dovremmo sentire il primo frenaggio tra cinque minuti. Tutto è normale.»
«Io non mi servirei certo di questo termine» borbottò Floyd tra sé e sé. «Direi che tutto è soltanto «nominalmente» normale.» Aveva appena formulato questa riflessione, che udì bussare alla porta. Non senza stupore da parte sua, risultò che si trattava di Zenia.