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«Le spiace se entro?» ella domandò, goffamente, con una voce da bimbetta che Floyd stentò a riconoscere.

«No di certo. Ma come mai non si trova nella sua cabina? Mancano appena cinque minuti al rientro.»

Nel momento stesso in cui poneva la domanda, si rese conto di quanto fosse stupida. La risposta era così assolutamente ovvia che Zenia non si degnò di dargliela.

Eppure ella era l’ultima persona al mondo che Floyd si sarebbe aspettato; l’atteggiamento della giovane donna nei suoi riguardi era sempre stato cortese, ma distaccato. In effetti, unica dell’equipaggio, ella preferiva chiamarlo dottor Floyd. Eppure adesso si trovava lì, in cerca ovviamente di conforto e di compagnia nel momento del pericolo.

«Zenia, mia cara» egli le disse, lievemente malizioso, «lei è la benvenuta. Ma il mio alloggio è alquanto modesto; si potrebbe addirittura definirlo spartano.»

La russa riuscì a rivolgergli una parvenza di sorriso, ma non disse nulla mentre entrava galleggiando nella cabina. Per la prima volta Floyd si rese conto che non era semplicemente nervosa… ma addirittura terrorizzata. Capì allora perché era venuta da lui. Si vergognava di farsi vedere dai suoi compatrioti e aveva cercato un po’’ di conforto altrove.

Questa consapevolezza ridusse alquanto il piacere a causa della visita inaspettata. Ma la cosa non diminuiva le sue responsabilità nei confronti di un altro essere umano, solo e infinitamente lontano da casa. Il fatto che ella fosse una donna attraente — anche se, senza dubbio, non bella — e avesse sì e no la metà dei suoi anni, non avrebbe dovuto influire sulla situazione. Invece la influenzò; e Floyd già si apprestava ad essere all’altezza dell’occasione che gli si offriva.

Zenia dovette accorgersene, ma non fece nulla, sia per incoraggiarlo, sia per scoraggiarlo mentre si stendevano fianco a fianco in quel bozzolo che era il letto. V’era appena posto per entrambi, e Floyd cominciò a eseguire alcuni ansiosi calcoli mentali. Se il g massimo fosse stato superiore al previsto, e i sostegni avessero ceduto? Sarebbe stato facile lasciarci la pelle…

Esisteva un ampio margine di sicurezza; non v’era alcuna necessità di temere una fine così ignominiosa. Ma l’umorismo è nemico del desiderio; il loro abbraccio divenne a questo punto completamente casto. E lui non sapeva bene se esserne lieto o se dolersene.

Inoltre era ormai troppo tardi per i ripensamenti. Da lontano, da molto lontano, giunse il primo bisbiglio sommesso di suono, simile al lamento di un’anima perduta. Al contempo, l’astronave sussultò in modo percettibile; il bozzolo entro il quale erano distesi cominciò a oscillare e le sospensioni si tesero. Dopo settimane di assenza di peso, la gravità stava tornando.

Entro pochi secondi, il fioco gemito era divenuto un rombo costante e il bozzolo aveva finito con il tramutarsi in una amaca sovraccarica. Non è stata poi una così buona idea, pensò Floyd; già riusciva difficile respirare. La decelerazione era soltanto un aspetto della difficoltà. Zenia gli si stava avvinghiando come si suppone che una persona sul punto di affogare si afferri alla proverbiale pagliuzza.

Egli la scostò con tutta la dolcezza possibile.

«Va tutto bene, Zenia. Se la Tsien ci è riuscita, possiamo farcela anche noi. Si rilassi… non abbia paura.»

Era difficile urlare teneramente, e lui non sapeva neppure con certezza se Zenia riuscisse a udirlo con quel rombo dell’idrogeno portato all’incandescenza. Ma ella non gli si avvinghiava più in quel modo così disperato e Floyd ne approfittò per respirare alcune volte profondamente.

Che cosa avrebbe pensato Caroline se le fosse stato possibile vederlo in quel momento? E lui le avrebbe detto quel che era accaduto, qualora fosse tornato sulla Terra? Non sapeva bene se ella avrebbe capito. In un momento come quello, tutti i legami con il pianeta degli uomini sembravano davvero molto tenui…

Riusciva impossibile muoversi, o anche soltanto parlare, ma adesso che egli si era abituato alla strana sensazione del peso, non si sentiva più a disagio… eccezion fatta per il crescente intorpidimento del braccio destro. Non senza qualche difficoltà, riuscì a districarsi di sotto a Zenia; il movimento familiare gli fece nascere dentro un fuggevole senso di colpa. Mentre sentiva la circolazione riprendere, Floyd rammentò una frase famosa, attribuita ad almeno una dozzina di astronauti e cosmonauti: «Sia i piaceri, sia le difficoltà del sesso con gravità zero sono stati di gran lunga esagerati.»

Si domandò come se la stessero cavando gli altri dell’equipaggio, e pensò fuggevolmente a Chandra e a Curnow, che dormivano pacifici in quell’inferno. Non si sarebbero mai accorti di nulla, anche se la Leonov si fosse tramutata in una pioggia di meteore nel cielo gioviano. Ma non li invidiò: erano stati privati di un’esperienza unica nella vita.

Tanya stava parlando per mezzo dell’impianto di comunicazioni interne: le parole si perdevano nel rombo, ma la voce di lei sembrava calma e assolutamente normale, proprio come se ella stesse facendo un annuncio di ordinaria amministrazione. Floyd riuscì a sbirciare l’orologio e rimase stupefatto constatando che si trovavano già nel punto intermedio della manovra di frenaggio. In quell’attimo la Leonov aveva raggiunto il massimo avvicinamento a Giove e soltanto sonde automatiche sacrificabili si erano spinte più in profondità nell’atmosfera gioviana.

«Ci troviamo a metà strada, Zenia» urlò. «Ora stiamo cominciando ad allontanarci dall’atmosfera.» Non riuscì a rendersi conto se ella avesse capito. Continuava a tenere gli occhi strettamente chiusi, ma sorrise appena.

L’astronave stava dondolando adesso in modo percettibile, come una piccola imbarcazione su un mare tempestoso. Era normale, questo? si domandò Floyd. E fu lieto di dover preoccuparsi a causa di Zenia; la preoccupazione lo distraeva dai propri timori. Soltanto per un momento, prima di riuscire a scacciare quella riflessione, si raffigurò le pareti del cubicolo divenire a un tratto incandescenti, color rosso ciliegia, e abbattergli addosso. Come nella fantasia da incubo di Edgar Allan Poe, Il pozzo e il pendolo, che per trent’anni egli aveva dimenticato…

Ma questo non sarebbe mai accaduto. Se lo scudo antitermico avesse ceduto, l’astronave si sarebbe afflosciata in un attimo, martellata e appiattita da una parete solida di gas. Non vi sarebbe stato alcun dolore; il suo sistema nervoso non avrebbe avuto il tempo di reagire prima di cessare di esistere. Floyd aveva pensato altre volte cose più consolanti, ma questa non era, tutto sommato, da disprezzare.

Gli scossoni diminuirono adagio. Vi fu un nuovo annuncio inaudibile da parte di Tanya (egli l’avrebbe presa in giro al riguardo, quando tutto fosse finito). Ora il tempo sembrava trascorrere molto più adagio; dopo qualche momento egli smise di consultare l’orologio, perché stentava a crederlo. Le cifre digitali cambiavano talmente adagio da indurlo quasi ad immaginare di trovarsi in qualche dilatazione einsteniana della dimensione temporale.

Poi accadde qualcosa di ancor più incredibile. A tutta prima questo lo divertì, poi lo indignò lievemente. Zenia si era addormentata se non proprio tra le sue braccia, per lo meno accanto ad esse.

Si trattava di una reazione naturale; la tensione nervosa doveva averla spossata e la saggezza, dell’organismo era venuta in suo soccorso. Poi, all’improvviso, lo stesso Floyd divenne consapevole di una sonnolenza quasi postorgasmica, come se, a sua volta, fosse stato svuotato emotivamente dall’incontro. E dovette lottare per rimanere desto…

Infine, ecco che cadeva… cadeva… cadeva… era tutto finito. L’astronave si trovava di nuovo nello spazio vuoto, il suo ambiente naturale. E lui e Zenia si allontanavano l’uno dall’altra, galleggiando. Non sarebbero stati mai più così vicini, ma sempre avrebbero provato una reciproca, particolare tenerezza, che nessun altro sarebbe mai riuscito a condividere.