«Ho sorvolato il Kilauea durante l’eruzione del 2006; si trattava di uno spettacolo formidabilmente spaventoso, ma era niente — niente — in confronto a questo. In questo momento ci troviamo sul lato immerso nella notte di Io, e ciò peggiora la situazione. Si vede appena quanto basta per immaginare molto di più. Trattasi di una scena vicina all’inferno quanto possa mai desiderare di accostarmi…
«Alcuni dei laghi di zolfo sono caldi abbastanza per essere luminosi, ma la maggior parte della luce proviene dalle scariche elettriche. Ogni pochi minuti l’intero paesaggio sembra esplodere, come se su di esso avesse avvampato un flash gigantesco. E questa, probabilmente, non è un’analogia sbagliata; vi sono milioni di ampères che scorrono nel fascio del flusso magnetico dal quale rimangono collegati Io e Giove, e ogni tanto si determina una scarica. Ne conseguono i più formidabili fulmini del sistema solare, e tutti i nostri interruttori di sicurezza scattano per simpatia.
«Vi è stata appena adesso un’eruzione proprio sul terminatore, e posso vedere una nube immensa espandersi verso di noi, salendo nella luce del sole. Dubito che possa arrivare all’altezza alla quale ci troviamo e, anche se la raggiungesse, diverrebbe innocua prima di estendersi sin qui. Comunque ha un aspetto minaccioso — un mostro spaziale che tenta di divorarci.
«Subito dopo il nostro arrivo, mi sono reso conto che Io mi ricordava qualcosa; ma ho impiegato un paio di giorni per capire di che si trattava, e poi ho dovuto controllare presso gli Archivi della Missione perché la biblioteca dell’astronave non mi era stata utile — vergogna. Rammenti che ti feci conoscere II Signore degli Anelli quando eravamo due ragazzetti, a quella conferenza a Oxford? Bene, Io è Mordor; vatti a rivedere la Parte Terza. Ve un brano che descrive «fiumi di roccia fusa serpeggianti sinuosi… finché non si raffreddano e giacciono simili a contorte forme di draghi vomitate dalla terra tormentata». È una descrizione perfetta; come poteva saperlo Tolkien, un quarto di secolo prima che chiunque avesse mai veduto una fotografia di Io? E poi dicono che la natura imita l’arte!
«Per lo meno non dovremo atterrare laggiù. Credo che anche i nostri defunti colleghi cinesi non ci avrebbero provato. Ma forse un giorno potrà essere possibile; vi sono zone che sembrano abbastanza stabili e non vengono continuamente inondate da alluvioni di zolfo.
«Chi mai avrebbe potuto credere che saremmo arrivati fino a Giove, il più grande dei pianeti — per poi ignorarlo? Eppure è proprio quello che stiamo facendo, quasi continuamente; e, quando non stiamo contemplando Io o la Discovery, pensiamo a… al monolito.
«Dista ancora diecimila chilometri, si trova laggiù, nel punto di librazione, ma quando lo osservo con il telescopio principale sembra tanto vicino da poter essere toccato. Essendo esso così completamente uniforme, non è possibile valutarne le dimensioni, lo sguardo non può rendersi conto in alcun modo che, in realtà, è lungo un paio di chilometri. Se è massiccio, deve pesare miliardi di tonnellate.
«Ma è solido e massiccio? Non rimanda quasi alcuna eco radar, anche quando si trova direttamente sotto di noi. Possiamo vederlo soltanto come una nera sagoma contro le nubi di Giove, trecentomila chilometri più in basso. A parte le dimensioni, sembra esattamente identico al monolito che estraemmo dal cratere lunare.
«Bene, domani saliremo a bordo della Discovery, e non so quando avrò il tempo o il modo di parlarti di nuovo. Ma c’è ancora una cosa, vecchio mio, prima che smetta.
«Si tratta di Caroline. Non ha mai realmente capito perché mi sia ritenuto in dovere di abbandonare la Terra e, in un certo senso, credo che non riuscirà mai a perdonarmi del tutto. Certe donne credono che l’amore sia tutto. E forse hanno ragione… Ma in ogni modo è senza dubbio troppo tardi per discuterne adesso.
«Cerca di confortarla quando ne avrai la possibilità. Dice che vuoi tornare nel continente. E temo che in tal caso…
«Se i tuoi tentativi non avranno esito con lei, cerca di rallegrare Chris. Mi manca più di quanto voglia dire.
«Egli crederà allo zio Dimitri… se gli dirai che suo padre continua a volergli bene e tornerà a casa al più presto possibile.»
17. IL GRUPPO DI ABBORDAGGIO
Anche nelle più favorevoli delle circostanze, non è facile salire a bordo di un’astronave abbandonata, che non collabora. Il tentativo può essere anzi decisamente pericoloso.
Walter Curnow lo sapeva come principio astratto, ma continuò a non sentirlo realmente nelle ossa finché non ebbe veduto gli interi cento metri di lunghezza della Discovery capovolgersi mentre la Leonov si teneva a distanza di sicurezza. Anni prima, l’attrito aveva frenato la rotazione del giroscopio della Discovery, trasferendone così il momento angolare al resto della struttura. E ora, come la bacchetta di tamburo di una majorette giunta al culmine della sua traiettoria, l’astronave abbandonata stava girando adagio su se stessa lungo la propria orbita.
Il primo problema consisteva nel fermare quelle giravolte, che rendevano la Discovery non soltanto incontrollabile, ma anche quasi inavvicinabile. Mentre indossava la tuta nel locale a chiusura ermetica insieme a Max Brailovsky, Curnow venne pervaso da un’assai rara sensazione di incapacità, e persino di inferiorità. Quanto stava per fare non rientrava nella sfera della sua competenza. Aveva già spiegato in tono tetro: «Sono un ingegnere spaziale, non una scimmia dello spazio.» Eppure bisognava procedere. Lui solo possedeva le cognizioni tecniche che avrebbero potuto sottrarre la Discovery alla stretta di Io. Max e i suoi colleghi, alle prese con diagrammi di circuiti e con apparecchiature non familiari, avrebbero impiegato troppo tempo. Prima che fossero riusciti a ridare energia all’astronave e a padroneggiarne i comandi, essa sarebbe precipitata nelle ignee voragini sottostanti.
«Non ha paura, vero?» domandò Max, mentre stavano per mettersi il casco della tuta spaziale.
«Non tanto da farmela sotto. Ma abbastanza, sì.»
Max ridacchiò. «È comprensibile, direi, tenuto conto del compito che ci aspetta. Ma non si preoccupi… la porterò là tutto di un pezzo con il mio… com’è che lo chiamate voi?»
«Manico di scopa. Perché si suppone che lo cavalchino le streghe.»
«Ah, sì. Ne ha mai adoperato uno?»
«Ci provai, una volta, ma il mezzo mi sfuggì. Tutti gli altri trovarono la cosa divertentissima.»
Vi sono alcuni mestieri che hanno dato luogo ad attrezzi unici e caratteristici: il gancio degli scaricatori, la ruota dei vasai, la cazzuola del muratore, il martello del geologo. Gli uomini che dovevano dedicare gran parte del loro tempo a lavori di costruzione con gravità zero avevano inventato il manico di scopa.
Era semplicissimo: un tubo vuoto lungo appena un metro, munito di un appoggio per i piedi a un’estremità e di un anello per sostenersi a quell’altra. Quando si premeva un pulsante, poteva diventare cinque o sei volte più lungo e il sistema interno per l’assorbimento degli urti consentiva, a chi fosse abile nel servirsene, di eseguire le manovre più strabilianti. L’appoggio per i piedi poteva tramutarsi inoltre, se necessario, in una sorta di pinza o in un gancio. Esistevano molte altre raffinatezze, ma la struttura generale si riduceva a questo. L’aggeggio sembrava ingannevolmente facile da impiegare, ma non lo era.
Le pompe del locale a chiusura ermetica terminarono di riciclare; l’avviso luminoso USCITA si accese, i portelli esterni si aprirono ed essi cominciarono ad allontanarsi adagio galleggiando nel vuoto.
La Discovery stava girando su se stessa a circa duecento metri di distanza, seguitando nell’orbita intorno a Io, che colmava una metà del cielo. Giove rimaneva invisibile dietro il satellite. Questa posizione dei due corpi celesti era stata scelta deliberatamente; si stavano infatti servendo di Io come di uno scudo che li proteggesse dalle energie infurianti avanti e indietro entro il fascio di flussi magnetici che collegava i due mondi. Ma, anche così, il livello di radiazione era pericolosamente alto. Disponevano di meno di quindici minuti prima di essere costretti a tornare al riparo.