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La storia era cominciata là; questo, almeno, ora lo capiva. Ma in qual modo — e soprattutto perché — altri segreti continuavano ad essergli celati?

Rimaneva tuttavia un ultimo compito, il più difficile di ogni altro. Ed egli continuava ad essere sufficientemente umano per rinviarlo fino all’ultimo momento.

* * *

E adesso che cosa sta combinando? si domandò l’infermiera di turno, zumando il monitor della TV sull’anziana signora. Ne ha commesse di bizzarrie, ma questa è la prima volta che la vedo parlare con il suo apparecchio acustico, santo cielo. Mi domando che cosa stia dicendo.

Il microfono non era abbastanza sensibile per captare, ma questo sembrava non rivestire alcuna importanza. Di rado Jessie Bowman era sembrata così serena e soddisfatta. Sebbene avesse gli occhi chiusi, l’intero viso di lei veniva raddolcito da un sorriso quasi angelico, mentre le labbra continuavano a formare parole bisbigliate.

E poi l’infermiera vide qualcosa che si sforzò di dimenticare, poiché, se ne avesse parlato, sarebbe stata considerata all’istante non più in grado di essere infermiera. Adagio e a sussulti, il pettine che si trovava sul comodino si sollevò in aria come se fosse stato preso da dita goffe e invisibili.

Al primo tentativo, fallì; poi, con manifesta difficoltà, cominciò a ravviare i lunghi capelli argentei, fermandosi a volte per districare un groviglio.

Jessie Bowman non stava più parlando, adesso, ma continuava a sorridere. Il pettine si stava muovendo con maggior precisione, non più a bruschi e incerti sussulti.

L’infermiera non seppe mai con certezza per quanto tempo la cosa fosse durata. Né, fino a quando il pettine venne rimesso con dolcezza sul comodino, si riebbe dalla paralisi.

Il decenne Dave Bowman aveva portato a termine il compito che invariabilmente odiava, ma che piaceva a sua madre. E un David Bowman ormai senza età era riuscito a dominare per la prima volta la caparbia materia.

Jessie Bowman stava ancora sorridendo quando l’infermiera si decise infine a indagare. Si era spaventata troppo per affrettarsi; ma anche precipitarsi subito nella camera non avrebbe fatto alcuna differenza.

35. RIABILITAZIONE

Il clamore sulla Terra era piacevolmente inaudibile al di là dei milioni di chilometri di spazio. L’equipaggio della Leonov seguì affascinato, ma anche con un certo distacco, i dibattiti alle Nazioni Unite, le interviste ad illustri scienziati, le teorie dei commentatori di notizie, i resoconti circostanziati eppure in netto contrasto l’uno con l’altro, da parte di coloro che avevano avuto incontri ravvicinati. L’equipaggio non poteva contribuire in alcun modo all’agitazione generale, in quanto non aveva assistito ad alcun’altra manifestazione di qualsiasi genere. Zagadka, alias Grande Fratello, rimaneva, come sempre, del tutto indifferente alla presenza dell’astronave. E questa era una situazione davvero ironica; avevano compiuto il lungo viaggio dalla Terra per risolvere un mistero — ma sembrava che la soluzione potesse essere trovata proprio al loro punto di partenza.

Per la prima volta si sentirono grati a causa della bassa velocità della luce e del ritardo di due ore che rendeva impossibili le interviste in diretta sul circuito TerraGiove. Ciononostante, Floyd venne assediato da un tale numero di richieste da parte dei mezzi di comunicazione di massa che, in ultimo, si mise in sciopero. Non v’era niente di più da dire di quanto aveva già detto almeno una dozzina di volte.

E, a parte questo, rimaneva ancora molto lavoro da sbrigare. La Leonov doveva essere preparata per il lungo viaggio di ritorno sulla Terra, affinché potesse essere pronta a partire immediatamente non appena la finestra di lancio si fosse aperta. Il momento della partenza non era affatto critico; anche se lo avessero oltrepassato di un mese, si sarebbero limitati a protrarre la durata del viaggio, Chandra, Curnow e Floyd non se ne sarebbero nemmeno accorti nel loro stato di ibernazione, tornando verso il Sole; ma gli altri dell’equipaggio erano torvamente decisi a partire non appena le leggi della meccanica celeste lo avessero consentito.

La Discovery continuava a porre molti problemi. L’astronave disponeva di propellente appena bastante per il ritorno sulla Terra, anche se fosse partita molto più tardi della Leonov e avesse seguito un’orbita con minimo consumo di energia — un’orbita che avrebbe richiesto quasi tre anni per essere percorsa. Ma ciò sarebbe stato possibile soltanto potendo fiduciosamente programmare Hal per lo svolgimento della missione senza alcun intervento umano, tranne il monitoraggio a lunga portata. Senza la collaborazione del computer, la Discovery sarebbe dovuta essere abbandonata una volta di più.

Era stato affascinante — e invero molto commovente — assistere alla costante rinascita della personalità di Hal, dallo stadio di un bambino affetto da una lesione al cervello a quello di un adolescente interdetto e infine allo stadio di un adulto che dava prova di una lieve condiscendenza. Pur sapendo che queste etichette così antropomorfiche erano assai fuorvianti, Floyd trovava del tutto impossibile evitarle.

E venivano momenti nei quali sentiva che l’intera situazione aveva assistito a videodrammi nei quali adolescenti turbati venivano rimessi in sesto da savi discendenti del leggendario Sigmund Freud! Essenzialmente, la stessa cosa andava ripetendosi adesso all’ombra di Giove.

La psicanalisi elettronica aveva proceduto con una rapidità situata totalmente al di là della comprensione umana man mano che programmi di riparazione e diagnostici balenavano lungo i circuiti di Hal a miliardi di bit al secondo, individuando esattamente possibili difetti di funzionamento e correggendoli. Sebbene quasi tutti questi programmi fossero stati preventivamente messi alla prova con il gemello di Hal, Sal 9000, l’impossibilità di un dialogo in tempo reale tra i due computer costituiva un serio ostacolo. A volte si perdevano ore quando risultava necessario controllare con la Terra una fase critica della terapia.

Infatti, nonostante tutto il gran lavoro di Chandra, la riabilitazione del computer era ancora tutt’altro che completa. Hal continuava a manifestare numerose idiosincrasie nonché tic nervosi, e a volte ignorava addirittura le parole pronunciate, anche se riconosceva sempre gli input da tastiera, effettuati da chicchessia. Nella direzione opposta, i suoi output erano ancora più eccentrici. Venivano momenti in cui dava risposte verbali, ma non voleva visualizzarle sullo schermo. Altre volte faceva entrambe le cose, ma si rifiutava di azionare la stampante. Non forniva giustificazioni né spiegazioni — nemmeno il caparbiamente impenetrabile «io preferisco non farlo» dell’autistico scrivano di Melville, Bartleby.

Tuttavia, non era tanto attivamente disubbidiente quanto riluttante, e inoltre soltanto quando si trattava di certi compiti. Si riusciva sempre, in ultimo, ad assicurarsi la sua collaborazione — a «fargli passare il broncio con la persuasione», come si esprimeva nitidamente Curnow.

Non era sorprendente che il dottor Chandra cominciasse a tradire la stanchezza. In una famosa occasione, quando Max Brailovsky, innocentemente, riesumò un vecchio canard, egli perdette quasi la pazienza.

«È vero, dottor Chandra, che lei scelse il nome Hal per essere di un passo più avanti dell’IBM?»

«Questa è una totale assurdità! Una buona metà di noi proviene dall’IBM, e per anni abbiamo cercato tutti di smentire tale diceria. Credevo che ormai ogni persona intelligente sapesse come il nome HAL derivi da Heuristic Algorithmic (algoritmo euristico).» In seguito Max giurò che era riuscito a udire distintamente le lettere maiuscole.