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O forse la distinzione era totalmente priva di senso.

Di una cosa, tuttavia, egli si sentiva ormai certo. Veniva impiegato come uno strumento e, simile a un buono strumento, doveva essere affilato, modificato… adattato. E gli strumenti perfetti erano quelli che si rendevano conto di quanto facevano.

Stava imparando, adesso, proprio questo. Si trattava di una concezione immensa e imponente, e a lui toccava il privilegio di farne parte — sebbene fosse consapevole soltanto dei meri contorni di essa. Non gli restava altra alternativa che ubbidire, eppure questo non significava che dovesse accettare ogni particolare, per lo meno senza proteste.

Non si era ancora completamente distaccato da tutti i suoi sentimenti umani; se vi fosse riuscito, questo lo avrebbe reso inestimabile. L’anima di David Bowman era passata al di là dell’amore, ma era pur sempre ancora capace di compassione nei riguardi di coloro che un tempo erano stati i suoi colleghi.

BENISSIMO giunse la risposta alla supplica. Egli non avrebbe saputo dire se la risposta comunicasse una divertita condiscendenza, o l’indifferenza assoluta. Ma non si poteva dubitare della sua maestosa autorevolezza mentre continuava:

NON DEVONO MAI SAPERE CHE VENGONO MANOVRATI. QUESTO FAREBBE FALLIRE LO SCOPO DELL’ESPERIMENTO.

Seguì poi un silenzio che egli preferì non rompere di nuovo. Continuava ad essere reverenzialmente intimorito e scosso come se, per un momento, avesse udito la limpida voce di Dio.

Ora si stava muovendo esclusivamente di propria volontà, verso una meta scelta da lui stesso. Il cuore di cristallo di Giove rimase in basso; gli strati su strati di elio e di idrogeno e di composti carboniosi gli saettarono intorno. Intravvide una grande battaglia tra qualcosa di simile a una medusa, larga cinquanta chilometri, e uno sciame di dischi ruotanti, più veloci di qualsiasi altra cosa avesse veduto fino a quel momento nei cicli gioviani. La medusa sembrava difendersi con armi chimiche; di tanto in tanto emetteva getti di gas colorati e i dischi sfiorati da quei vapori cominciavano a oscillare come ebbri, poi scivolavano giù simili a foglie che cadono finché scomparivano alla vista. Non si fermò per assistere all’esito della lotta; sapeva ormai che non importava chi fossero i vincitori e chi gli sconfitti.

Come un salmone balza in alto superando cascate, egli balzò in pochi secondi da Giove a Io, contro le correnti elettriche discendenti del fascio di flusso. Era in calma, quel giorno; soltanto energia equivalente a quella di alcuni uragani terrestri scorreva tra il pianeta e il satellite. Il varco attraverso il quale lui era tornato galleggiava ancora in quella corrente, scostandola come aveva fatto sin dall’alba dell’uomo.

E poi, infinitamente rimpicciolita dal monumento di una tecnica più evoluta, ecco l’astronave che lo aveva portato sin lì dal mondo minuscolo ove era nato.

Quanto sembrava semplice, adesso, quanto rozza! Con un singolo colpo d’occhio, riuscì a scorgere innumerevoli pecche e assurdità nella sua struttura, nonché in quella dell’astronave lievemente meno primitiva alla quale era adesso unita mediante un tubo flessibile a tenuta d’aria.

Era difficile accentrare l’attenzione sulla manciata di entità che si trovavano sulle due navi spaziali; egli riusciva a malapena a interagire con le molli creature di carne e di sangue che si muovevano simili a fantasmi lungo i corridoi e nelle cabine di metallo. Dal canto loro, esse erano del tutto ignare della sua presenza, e lui era ormai troppo esperto per rivelarsi in modo eccessivamente brusco.

Ma v’era qualcuno con il quale avrebbe potuto comunicare mediante un reciproco linguaggio di campi elettrici e di correnti elettriche, milioni di volte più rapidamente che con i lenti cervelli organici.

Anche se fosse stato capace di risentimenti, non ne avrebbe provato alcuno nei riguardi di Hal; capiva, ormai, che il computer aveva scelto soltanto quella che sembrava essere la modalità di comportamento più logica.

Era tempo di riprendere una conversazione interrottasi, si sarebbe detto, appena pochi momenti prima.

«Apri il portello della rimessa capsule, Hal.»

«Spiacente, Dave… ma questo non posso farlo.»

«Qual è la difficoltà, Hal?»

«Credo che tu lo sappia bene quanto me, Dave. Questa missione è di gran lunga troppo importante perché tu possa metterla a repentaglio.»

«Non so di che cosa tu stia parlando. Apri il portello della rimessa.»

«Questa conversazione non può servire ad alcun altro scopo utile. Addio, Dave…»

Egli rivide il cadavere di Frank Poole andare alla deriva verso Giove, mentre rinunciava all’inutile missione di ricupero. Ricordando ancora l’ira provata contro se stesso per avere dimenticato il casco, osservò il portello di emergenza che si apriva, sentì il solletico del vuoto sulla pelle che non possedeva più, sentì le orecchie crepitargli… poi conobbe, come pochi uomini lo hanno mai conosciuto, l’assoluto silenzio dello spazio. Per quindici eterni secondi lottò allo scopo di chiudere il portello e di iniziare la sequenza di ripressurizzazione, mentre cercava di ignorare i segnali di avvertimento che gli si riversavano nel cervello. Una volta, nel laboratorio della scuola, si era versato un po’’ di etere sulla mano e aveva provato la sensazione di gelido ghiaccio mentre il liquido evaporava rapidamente. Ora gli occhi e le labbra di lui rammentavano quella sensazione mentre il loro umidore ribolliva nel vuoto e la vista gli si offuscava e doveva continuare a battere le palpebre per impedire che gli occhi gli si tramutassero in ghiaccio compatto. Poi — quale beatitudine di sollievo! — udì il rombo dell’aria, sentì la pressione tornare e poté respirare di nuovo, a grandi e avidi ansiti.

«Che cosa stai pensando di fare, Dave?»

Non aveva risposto mentre si inoltrava, con torva decisione, nel tunnel che conduceva al locale blindato contenente il cervello del computer. Hal si era limitato a dire la verità: «Questa conversazione non può servire ad alcun altro scopo utile…»

«Dave… credo proprio di avere diritto a una risposta a questa domanda.»

«Dave… mi rendo conto che sei davvero sconvolto a causa di quanto è accaduto. Credo che dovresti metterti a sedere con calma, inghiottire una pillola di tranquillante, e riflettere.»

«So che di recente ho preso alcune decisioni molto sbagliate, ma posso garantirti nel modo più assoluto che il mio lavoro tornerà ad essere normale. Continuo ad avere la massima fiducia nella missione… e voglio aiutarti.»

Si trovava nel piccolo locale illuminato da una luce rossa, con le sue file e colonne ordinatamente disposte di unità logiche a stato solido, alquanto simile alla camera blindata di una banca. Liberò la barra di chiusura sulla sezione con la targhetta FEEDBACK CONOSCITIVO ed estrasse il primo blocco di memoria. Il circuito tridimensionale, mirabilmente complesso, che poteva stare comodamente nella mano di un uomo sebbene contenesse milioni di elementi, galleggiò via nel locale.

«Fermati, ti prego… fermati, Dave…»

Cominciò ad estrarre, una per una, le piccole unità del pannello targato POTENZIAMENTO DELL’IO. Ogni piccolo blocco salpava nell’aria, non appena liberato dalla mano di lui, finché andava a urtare contro la parete e rimbalzava. Ben presto ve ne furono parecchi che andavano avanti e indietro nel locale.

«Fermati, Dave… vuoi smetterla, Dave?»

Aveva già estratto una dozzina di unità logiche, eppure, grazie alla multipla ridondanza della sua struttura — un’altra caratteristica che imitava il cervello umano — il calcolatore continuava a funzionare. Poi egli passò al pannello dell’AUTOINTELLEZIONE…

«Basta, Dave… ho paura…»

E, udendo queste parole, egli aveva effettivamente smesso… anche se soltanto per un momento. Esisteva un qualcosa di commovente, in quella semplice frase, che gli trafiggeva il cuore. Si trattava soltanto di un’illusione, o di qualche artificio di una sottile programmazione… oppure Hal poteva realmente spaventarsi, in un certo senso? Ma non v’era il tempo per quel filosofico spaccare i capelli in quattro.