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Basterà per indurlo a riflettere, borbottò Floyd, non senza soddisfazione, e si riappoggiò alla spalliera della poltroncina per aspettare i risultati.

SONO CONSAPEVOLE DI QUESTE CIRCOSTANZE. CIÒ NONOSTANTE DOVETE PARTIRE ENTRO QUINDICI GIORNI.

Altrimenti, presumo, saremo attaccati da piccoli alieni verdi con tre occhi. Farò meglio a stare al gioco con Hal, nella speranza di smascherare il burlone.

Non posso prendere sul serio questo avvertimento a meno che non ne conosca l’origine. Chi lo ha registrato?

Non si aspettava, in realtà, alcuna informazione utile. Il colpevole (o la colpevole?) aveva di certo cancellato troppo abilmente le proprie tracce. L’ultima cosa che Floyd si aspettasse fu la risposta datagli dal computer.

QUESTA NON È UNA REGISTRAZIONE.

Sicché si trattava di un messaggio in tempo reale. Questo significava che veniva o dallo stesso Hal o da qualcuno a bordo della Leonov. Non esisteva alcun intervallo di tempo percettibile: l’origine doveva trovarsi proprio lì.

Allora chi è a rivolgersi a me?

ERO UN TEMPO DAVID BOWMAN.

Floyd fissò a lungo lo schermo prima di compiere la mossa successiva. La burla, mai divertente in primo luogo, si era spinta troppo oltre. Non sarebbe potuta essere più di cattivo gusto. Bene, quanto stava per dire avrebbe sistemato chiunque stesse parlando.

Non posso accettare questa identificazione senza una prova.

CAPISCO. È IMPORTANTE CHE LEI MI CREDA. GUARDI ALLE SUE SPALLE.

Ancora prima che quest’ultima frase raggelante fosse apparsa sullo schermo, Floyd aveva cominciato a dubitare della sua ipotesi. L’intero dialogo era diventato stranissimo, sebbene egli non riuscisse a mettere il dito su alcunché di preciso. Come scherzo, la cosa aveva finito con lo svuotarsi di ogni significato.

E a questo punto… Floyd sentì un formicolio sulla schiena. Molto adagio — con riluttanza, in effetti — fece ruotare la poltroncina girevole, dando le spalle ai pannelli di comando e agli interruttori del display del computer e voltandosi verso la passerella rivestita in velcro.

L’ambiente a gravità zero del ponte di osservazione della Discovery era sempre polveroso, in quanto l’impianto per il filtraggio dell’aria non aveva mai potuto essere riportato alla piena efficienza. I raggi paralleli del sole freddo eppur vivido, penetrando attraverso le grandi finestre, illuminavano invariabilmente miriadi di particelle danzanti, che si spostavano lungo correnti capricciose senza mai posarsi in nessun posto.

Ma ora qualcosa di strano stava accadendo alle particelle di polvere: una qualche forza sembrava schierarle e allontanarle dal punto centrale, e al contempo però conducendone altre verso di esso, finché tutte vennero a unirsi sulla superficie di una sfera vuota. La sfera, del diametro di circa un metro, rimase sospesa nell’aria per un momento, come una gigantesca bolla di sapone — ma una bolla granulosa e priva della caratteristica iridescenza. Poi si allungò formando un ellissoide la cui superficie cominciò a incresparsi, dando luogo a pieghe e avvallamenti.

Senza stupore — e quasi senza timore — Floyd si rese conto che la bolla stava assumendo la forma di un uomo.

Aveva veduto forme analoghe, fatte di vetro soffiato, nei musei e alle mostre scientifiche. Ma quel polveroso fantasma non si avvicinava nemmeno approssimativamente alla precisione anatomica; sembrava una rozza statuetta di argilla, o una di quelle primitive opere d’arte rinvenute nelle caverne dell’età della pietra. Soltanto la testa era plasmata con qualche approssimazione; e il volto, indubbiamente, era quello del comandante David Bowman.

Un fioco mormorio di rumore bianco scaturì dal pannello del computer, alle spalle di Floyd. Hal stava passando dal display visivo a quello audio.

«Salve, dottor Floyd. Mi crede, adesso?»

Le labbra della figura misteriosa non si mossero mai, il viso rimase una maschera. Ma Floyd riconobbe la voce, e tutti i dubbi residui vennero spazzati via.

«Questo è molto difficile per me e dispongo di poco tempo. Mi è stato… consentito di darvi questo avvertimento… Vi restano soltanto quindici giorni.»

«Ma perché… e che cosa è lei? Dove è stato?»

V’era un milione di domande che avrebbe voluto porre… ma la spettrale apparizione si stava già dileguando, il suo granuloso involucro incominciava a dissolversi, restituendo alle correnti d’aria le particelle di polvere dalle quali era formato. Floyd si sforzò di fissare l’immagine nella propria mente, per poter persuadere se stesso, in seguito, che la cosa era realmente accaduta — e che non si trattava di un sogno come ormai sembrava esserlo, a volte, il primo incontro con il TMA-1.

Com’era strano che proprio lui, tra i miliardi di esseri umani vissuti sul pianeta Terra, avesse avuto il privilegio di entrare in contatto, non una volta sola, ma due, con un’altra forma di intelligenza! Sapeva infatti che quell’entità doveva essere qualcosa di più di David Bowman.

Era anche qualcosa di meno. Soltanto gli occhi — chi li aveva definiti, una volta, «le finestre dell’anima»? — sembravano essere stati riprodotti con esattezza. Il resto del corpo era un vuoto informe, privo di ogni particolare. Nessun indizio di genitali o di altre caratteristiche sessuali, la qual cosa costituiva di per sé un indizio raggelante di quanto David Bowman si fosse lasciato indietro il proprio retaggio umano.

«Addio, dottor Floyd. Rammenti… quindici giorni. Non vi sarà alcun altro contatto tra noi. Ma potrà esservi un altro messaggio, se tutto andrà bene.»

Nel momento stesso in cui l’immagine si dissolveva, conducendo via con sé ogni speranza di aprire un canale verso le stelle, Floyd non poté fare a meno di sorridere di quel vecchio cliché dell’era spaziale. «Se tutto andrà bene»… quante volte aveva udito le stesse parole prima dell’inizio di qualche missione! E questo significava forse che anch’essi — di chiunque potesse trattarsi — erano talora incerti per quanto concerneva l’esito? Se questo era vero, la cosa sembrava stranamente rassicurante. Non si trattava di esseri onnipotenti. Altri potevano ancora sperare e sognare — e agire.

Il fantasma era scomparso; rimanevano soltanto le danzanti particelle di polvere, che avevano ripreso i loro casuali vagabondaggi nell’aria.

PARTE VI

DIVORATORE DI MONDI

42. IL FANTASMA NELLA MACCHINA

«Mi spiace, Heywood… non credo ai fantasmi. Deve esservi una spiegazione razionale. Non esiste nulla che la mente umana non possa spiegare.»

«Sono d’accordo, Tanya. Ma mi consenta di ricordarle la famosa frase di Haldane: l’universo non è soltanto più strano di quanto immaginiamo… ma è più strano di quanto possiamo immaginare.»

«E Haldane» intervenne maliziosamente Curnow «era un buon comunista.»

«Può darsi, ma quella particolare frase può essere impiegata per puntellare ogni sorta di assurdità mistica. Il comportamento di Hal deve essere il risultato di qualche sorta di programmazione. La… personalità che il computer ha creato deve essere un qualche genere di manufatto. Non è d’accordo, Chandra?»

Era come agitare una bandiera rossa davanti al toro; Tanya doveva essere ridotta alla disperazione. Tuttavia, Chandra reagì in modo sorprendentemente blando, anche per lui. Sembrava preoccupato, come se davvero stesse prendendo in seria considerazione la possibilità di un nuovo difetto del computer.

«Deve esservi stato qualche input esterno, comandante Orlova. Hal non avrebbe potuto creare dal nulla una illusione audiovisiva così coerente. Se quanto riferisce il dottor Floyd è esatto, qualcuno stava controllando il computer. E in tempo reale, naturalmente, non essendo la conversazione ritardata.»