«Allora lei che cosa propone?» domandò Tanya, con una voce nella quale si poteva udire, adesso, un chiaro tono di minaccia.
«Dobbiamo dirgli tutta la verità, come la conosciamo… non più menzogne o mezze verità, che sono ugualmente pericolose. E poi dobbiamo consentirgli di decidere per proprio conto.»
«Diavolo, Chandra… è soltanto una macchina!»
Chandra fissò Max con uno sguardo così insistente e feroce che il giovane si affrettò ad abbassare gli occhi.
«Siamo tutti macchine, signor Brailovsky. È soltanto una questione di misura. L’essere basati sul carbonio o sul silicone non fa alcuna differenza fondamentale; tutti dovrebbero essere trattati con il dovuto rispetto.»
Era strano, pensò Floyd, che Chandra — di gran lunga la persona più piccoletta in quel locale — sembrasse ora la più imponente. Ma il confronto si era protratto troppo a lungo. Da un momento all’altro Tanya avrebbe cominciato a impartire ordini perentori, e la situazione sarebbe diventata davvero pericolosa.
«Tanya, Vasili… posso scambiare una parola con voi due? Credo che esista un modo di risolvere il problema.»
L’intervento di Floyd venne accolto con manifesto sollievo e, due minuti dopo, egli si stava rilassando con gli Orlov, nel loro alloggio. (O «il sedicesimo», come lo aveva una volta battezzato Curnow, a causa delle sue intenzioni. Pentendosi però presto della battuta, in quanto era stato costretto a spiegarla a tutti tranne che a Sascia.)
«Grazie, Woody» disse Tanya, porgendogli un’ampolla di plastica contenente il suo prediletto Shemakha dell’Azerbaigian. «Speravo che sarebbe intervenuto. Immagino che abbia… com’è ché dite voi?… un asso nella manica.»
«Credo di sì» rispose Floyd, spremendosi in bocca alcuni centimetri cubici del vino dolce, e gustandolo con gratitudine. «Mi spiace che Chandra stia facendo difficoltà.»
«Anche a me. È una fortuna che abbiamo a bordo soltanto uno scienziato pazzoide.»
«Non è quello che hai detto a me, a volte» sorrise l’accademico Vasili. «In ogni modo, Woody… sentiamo di che si tratta.»
«Ecco che cosa propongo. Lasciamo che Chandra faccia a modo suo, dopodiché vi saranno due sole possibilità.
«Primo: Hal farà esattamente quello che noi vogliamo — vale a dire controllerà la Discovery durante i primi due periodi di accensione dei propulsori. Ricordate che il primo non è critico. Se qualcosa dovesse andare storto durante l’allontanamento da Io, vi sarebbe tutto il tempo di apportare correzioni. Inoltre avremo così il modo di constatare validamente la disponibilità di Hal… a collaborare.»
«Ma il sorvolo ravvicinato di Giove? È questo che conta realmente. Non soltanto consumeremo laggiù quasi tutto il propellente della Discovery, ma il calcolo dei tempi e dei vettori di spinta dovrà essere assolutamente esatto.»
«Non sarebbe possibile passare al comando manuale?»
«Inorridirei dovendo tentare. Un errore anche minimo e o bruceremmo o ci trasformeremmo in una cometa a lungo periodo. Di ritorno qui soltanto tra un paio di migliaia di anni.»
«Ma se non vi fosse alcun’altra alternativa?» insistette Floyd.
«Be’, supponendo di poter passare tempestivamente al comando manuale, e di disporre di una valida serie di orbite alternative calcolate in precedenza… uhm, forse riusciremmo a cavarcela.»
«Conoscendola, Vasili, sono certo che questo «riusciremmo» significa «riusciremo». Il che mi conduce alla seconda possibilità cui ho accennato. Se risultasse una benché minima deviazione di Hal dal programma… dovremmo intervenire.»
«Vuoi dire… disinserirlo?»
«Precisamente.»
«La cosa non è risultata tanto facile l’ultima volta.»
«Da allora abbiamo imparato non poche lezioni. Lasciate fare a me. Vi garantisco che posso «darvi il comando manuale in mezzo secondo.»
«Non esiste alcun pericolo che Hal sospetti qualcosa?»
«Ora sta scivolando nella paranoia, Vasili. Hal non è umano fino a questo punto. Ma Chandra lo è… volendo concedergli il beneficio del dubbio. Ci dichiareremo tutti completamente d’accordo con il suo piano, diremo di essere spiacenti per aver sollevato obiezioni e di avere l’assoluta certezza che Hal si renderà conto del nostro punto di vista. D’accordo, Tanya?»
«D’accordo, Woody. E mi congratulo con lei per la sua preveggenza; quel piccolo dispositivo è stato un’ottima idea.»
«Quale dispositivo?» domandò Vasili.
«Te lo spiegherò uno di questi giorni. Mi spiace, Woody, ma questo è tutto lo Shemakha che mi resta. Voglio conservarlo… fino al momento in cui saremo in orbita verso la Terra.»
46. CONTO ALLA ROVESCIA
Nessuno crederebbe mai a una cosa simile senza le mie fotografie, pensò Max Brailovsky, orbitando intorno alle due astronavi a una distanza di mezzo chilometro. Sembra quasi comicamente indecente, come se la Leonov stesse violentando la Discovery. E, ora che stava pensando a questo, la tozza e compatta astronave russa sembrava decisamente maschile se paragonata alla delicata e snella nave spaziale americana. Ma quasi tutte le manovre di attracco hanno aspetti decisamente sessuali, ed egli ricordò che uno dei primi cosmonauti — del quale non riuscì a rammentare il nome — era stato rimproverato per la sua troppo vivida scelta delle parole nel momento… ehm… culminante della sua missione.
A quanto poteva arguire dal suo attento esame, tutto era in ordine. Il compito di posizionare le due astronavi e di collegarle saldamente aveva richiesto più tempo del previsto. Forse non sarebbe stato affatto possibile senza uno di quei colpi di fortuna che talora — ma non sempre — favoriscono chi li merita. Sulla Leonov erano stati provvidenzialmente caricati svariati chilometri di nastro fatto con filamenti di carbonio, non più spesso del nastrino con il quale una fanciulla potrebbe fermarsi i capelli, eppur capace di sostenere uno sforzo equivalente a molte tonnellate. Era stato fornito per consentire di applicare strumenti al Grande Fratello qualora tutti gli altri espedienti non avessero avuto successo. Ora avvolgeva la Leonov e la Discovery nel loro tenero amplesso abbastanza saldamente, per impedire vibrazioni e scuotimenti con ogni accelerazione, fino a quel decimo di gravità che era il massimo raggiungibile alla piena potenza dei propulsori.
«Vuoi che controlli qualcos’altro prima di rientrare?» domandò Max.
«No» rispose Tanya. «Tutto sembra essere a posto. E non possiamo perdere altro tempo.»
Questo era vero. Se il misterioso avvertimento doveva essere preso sul serio e tutti, ormai, lo prendevano davvero sul serio avrebbero dovuto iniziare la manovra di fuga entro le successive ventiquattr’ore.
«Bene, allora riporto Nina nella scuderia. Scusami per quello che sono costretto a fare, cara capsula.»
«Non ci avevi mai detto che Nina era una cavalla.»
«Non lo ammetto nemmeno adesso. E mi duole doverla abbandonare nello spazio, soltanto per assicurarci pochi miserabili metri in più al secondo.»
«Tra poche ore potremo essere lietissimi di esserceli assicurati, Max. E, in ogni modo, esiste sempre la possibilità che qualcuno venga qui, un giorno, a ricuperarla.»
Ne dubito moltissimo, pensò Max. E forse, tutto sommato, era opportuno abbandonare lì la piccola capsula spaziale, come elemento permanente della prima visita dell’uomo nel regno di Giove.
Mediante brevi impulsi, accuratamente intervallati, dei getti di guida, egli riportò la Nina accanto alla grande sfera del modulo principale di mantenimento della vita della Discovery; i suoi colleghi, sul ponte di volo, lo sbirciarono appena mentre passava accanto alle finestre ricurve. Il portello spalancato della rimessa capsule sbadigliava davanti a lui, ed egli manovrò con delicatezza la Nina fino al proteso braccio di attracco.