Ma ecco che un giorno, per la prima volta dopo anni e anni, arrivò qualcosa di interessante.
«Orbita 71934» disse l’astronomo in seconda, che si era affrettato a chiamare van der Berg non appena esaminati gli ultimi dati. «Arriva dalla faccia notturna… e dirige dritto su Monte Zeus. Non si vede niente ancora per dieci secondi, credo.»
Lo schermo era completamente nero, ma van der Berg immaginava benissimo i ghiacci ininterrotti che si stendevano sotto la coltre di nuvole mille chilometri più in basso. Di lì a poche ore quella zona del pianeta sarebbe stata illuminata dal Sole, perché la rivoluzione di Europa aveva un periodo di sette giorni terrestri. Veramente non si sarebbe dovuto dire «faccia notturna», ma «faccia crepuscolare», perché per metà del periodo c’era luce a sufficienza — ma non calore. Ma il nome, poco esatto, si era diffuso perché in un certo senso era corretto: l’altra faccia di Europa conosceva sì la luce del Sole, ma non quella di Lucifero.
E la luce del Sole si stava ora avvicinando, accelerata migliaia di volte dalla velocità alla quale procedeva il satellite. Un filo di luce divise in due lo schermo mentre l’orizzonte usciva dall’oscurità.
L’esplosione di luce fu così improvvisa che a van der Berg parve di assistere a un’esplosione atomica. In una frazione di secondo la luce passò attraverso tutti i colori dello spettro, poi divenne di un bianco purissimo quando il Sole balzò sopra la montagna, e scomparve quando i filtri automatici entrarono in funzione.
«Questo è tutto. Peccato che in quel momento non vi fosse un operatore alla telecamera, perché avrebbe potuto tenere inquadrata la montagna mentre il satellite vi passava sopra. Comunque ho pensato che avreste voluto vederlo lo stesso, anche se questo confuta la sua teoria.»
«E come?» chiese van der Berg, più perplesso che seccato.
«Lo riguardi al rallentatore. Quella specie di arcobaleno non è dovuto all’atmosfera. È lo stesso Monte Zeus che lo provoca. E questo sarebbe possibile solo se la montagna fosse fatta di ghiaccio. O di vetro, cosa che non mi sembra molto probabile.»
«Non impossibile, però. I vulcani producono una sostanza vetrosa, che normalmente è nera… Ma certo!»
«Sì?»
«Ehm… Preferisco non sbilanciarmi adesso. Prima voglio controllare i dati. Ma così a occhio direi che si tratta di cristallo di roccaquarzo trasparente. Materiale adattissimo per ricavarne prismi ottici e lenti. È possibile compiere altre osservazioni?»
«Temo di no… è stato un vero colpo di fortuna. Il Sole, la montagna e la telecamera disposti in linea. Capita una volta sola ogni mille anni.»
«Molte grazie, comunque… Senta, me ne può far avere una copia? Non c’è fretta, sto partendo ora per Ferrine, e fino a quando non sarò di ritorno non potrò far nulla» van der Berg se ne uscì con una breve risata quasi di scusa. «Sa, se davvero è cristallo di rocca, vale un patrimonio. Magari potrebbe anche aiutarci a risolvere i nostri problemi di bilancio…»
Ma, naturalmente, si trattava solo di sogni privi di fondamento. Quali che fossero le meraviglie — o i tesori — nascosti su Europa, la razza umana non avrebbe potuto goderne per via di quell’ultimo messaggio ritrasmesso dalla Discovery. Cinquant’anni dopo nulla era cambiato, e nulla faceva pensare che la zona proibita potesse mai diventare accessibile.
10. LA NAVE DEI FOLLI
Per le prime quarantotto ore di viaggio, Heywood Floyd rimase stupefatto dal comfort, dai grandi spazi, dal lusso addirittura delle cabine e dei saloni della Universe. Eppure gran parte degli altri passeggeri non batterono ciglio: non avendo mai lasciato la Terra, pensavano che tutte le astronavi fossero così.
Egli doveva ripercorrere con la mente la storia del volo umano per vedere le cose nella giusta luce. Heywood Floyd aveva direttamente assistito — anzi, partecipato — alla rivoluzione accaduta nei cieli del pianeta che ora si stava rimpicciolendo sempre più. Tra la vecchia e goffa Leonov e la sofisticata Universe correvano esattamente cinquant’anni. (L’istinto gli diceva che era impossibile, ma la matematica non è un’opinione.)
E cinquant’anni separavano anche i fratelli Wright dai primi aerei passeggeri a reazione. All’inizio di quel mezzo secolo, i primi intrepidi aviatori saltellavano da un campo all’altro, inzuppati dalla pioggia e frustati dal vento; e cinquant’anni dopo, le vecchiette sonnecchiavano pacificamente volando da un continente all’altro a mille chilometri all’ora.
Quindi lui non avrebbe dovuto stupirsi del lusso e dell’eleganza della sua cabina, e nemmeno del fatto che vi fosse uno steward che la mantenesse pulita e in ordine. Soprattutto era rimasto colpito dal grande oblò, e in un primo momento non aveva potuto non sentirsi a disagio pensando alle tonnellate di pressione atmosferica che l’oblò doveva ogni momento reggere contro il risucchio implacabile e incessante del vuoto dello spazio.
Ma la sorpresa più grande, anche se non imprevista dopo quanto ne aveva letto, era la presenza della gravità. La Universe era la prima astronave costruita per viaggiare sotto accelerazione continua, tranne per le poche ore necessarie al capovolgimento a metà del viaggio. Quando i grandi serbatoi del propellente erano colmi — potevano contenere cinquemila tonnellate d’acqua — l’accelerazione era in grado di esercitare una forza gravitazionale pari a un decimo di g, non molto, ma sufficiente per impedire agli oggetti di galleggiare a mezz’aria. Ciò era particolarmente comodo a tavola, anche se ci vollero alcuni giorni prima che i passeggeri imparassero a non mescolare con eccessivo vigore la minestra.
Quarantotto ore dopo la partenza dalla Terra, le persone a bordo della Universe si erano già suddivise in quattro classi distinte.
L’aristocrazia era composta dal capitano Smith e dai suoi ufficiali. Quindi venivano i passeggeri; poi l’equipaggio; e, infine, i passeggeri di terza classe.
Così infatti si definivano i cinque giovani scienziati imbarcati sulla Universe; dapprima per scherzo, ma poi con una certa amarezza. Quando Floyd paragonava la sua lussuosa cabina alle loro, anguste e rimediate com’erano, capiva benissimo il loro stato d’animo, e presto divenne il portavoce delle lamentele degli scienziati presso il capitano.
Eppure, tutto sommato, non avevano di che lamentarsi; vista la fretta con cui si era ultimata l’astronave, potevano ritenersi fortunati di avervi trovato posto, loro e le loro apparecchiature. In un modo o nell’altro avrebbero ora potuto disporre i loro strumenti nelle immediate vicinanze della cometa — e alcuni addirittura sulla cometa stessa — proprio nel momento culminante, quando la Halley si apprestava a girare attorno al Sole per poi allontanarsi di nuovo verso i limiti estremi del sistema solare. I cinque scienziati si sarebbero fatti un nome grazie a quel viaggio, ed essi se ne rendevano conto benissimo. Solo nei momenti di estrema stanchezza — o di rabbia, quando qualche strumento si rifiutava di funzionare come doveva — si lamentavano del sistema di ventilazione, che era rumoroso, o delle cabine, così strette da far venire la claustrofobia, o anche di cattivi odori d’ignota provenienza.
Ma non si lamentavano mai del vitto, che tutti trovavano eccellente. «È molto meglio» assicurò loro il capitano Smith «di quanto Darwin abbia mai mangiato a bordo del Beagle.»
«Ah sì?» aveva subito ribattuto Victor Willis. «E come fa lei a saperlo? E poi ricordiamoci che il capitano del Beagle si tagliò la gola appena fatto ritorno in Inghilterra.»
Era, quel tipo di battuta, tipico di Victor, forse il più famoso divulgatore scientifico del mondo (secondo i suoi estimatori), o il più famigerato orecchiante di scienza (secondo i suoi detrattori ugualmente numerosi — detrattori, ma non nemici, perché tutti indiscriminatamente ammiravano il suo talento, sebbene alcuni a malincuore). Molti ne scimmiottavano il largo accento della costa occidentale e i gesti espansivi; inoltre andava a suo merito (o demerito, a seconda dei punti di vista) che fosse tornato di moda farsi crescere la barba incolta. «Uno che si fa crescere una barba così» dicevano i suoi critici «deve avere parecchio da nascondere.»