Victor era certamente il più conosciuto dei sei VIP di bordo — sei, malgrado Floyd, che non si considerava più una celebrità, parlasse sempre dei «cinque grandi». Yva Merlin poteva spesso passeggiare per Park Avenue, le rare volte in cui usciva di casa, senza che nessuno la riconoscesse. Dimitri Mihailovic era, con suo dispiacere, più basso di dieci centimetri buoni della statura media; ciò forse spiegava in parte il suo amore per le orchestre — reali o al computer — di mille elementi, ma non migliorava la sua immagine pubblica.
Anche Clifford Greenberg e Margaret M’Bala rientravano nella categoria degli «illustri sconosciuti» — sebbene non sarebbe certamente più stato così quando avessero fatto ritorno sulla Terra. Il primo uomo che aveva messo piede su Mercurio aveva una di quelle facce simpatiche ma anonime che sono così difficili da ricordare; e poi erano trascorsi trent’anni da quando la sua fotografia campeggiava sulle prime pagine dei giornali. E, come succede alla gran parte degli autori che non si fanno vedere in televisione e non firmano le copie dei loro libri nelle librerie, ben pochi dei suoi lettori avrebbero riconosciuto la signorina M’Bala.
Aveva raggiunto la fama letteraria, in modo del tutto imprevisto, negli anni Quaranta. Un saggio erudito sulle divinità greche non ha di solito grandi possibilità di diventare un bestseller, ma la signorina M’Bala era stata capace di porre i miti eterni della Grecia nel contesto della società spaziale contemporanea. Nomi che cent’anni prima erano noti solo agli astronomi e agli studiosi di lettere classiche, ora facevano pane della visione del mondo di ogni persona con un minimo d’istruzione; quasi ogni giorno si dava notizia di quanto avveniva su Ganimede, Callisto, Io, Titano, Giapeto — o su mondi anche più oscuri quali Carme, Pasife, Iperione, Febo…
Il suo libro avrebbe comunque avuto solo un mediocre successo se la M’Bala non si fosse occupata soprattutto della complicata vita familiare di Zeus, il padre degli dèi (e di parecchi altri che dèi non erano). E, per un colpo di fortuna, un redattore di genio aveva cambiato il titolo da Guardando dall’Olimpo a Le passioni degli dèi. Gli invidiosi chiamavano l’opera Libidini olimpiche, ma non cessavano di desiderare di esserne loro l’autore.
Non sorprende dunque che fosse proprio Maggie M — come gli altri passeggeri soprannominarono subito la signorina M’Bala — a usare l’espressione «la nave dei folli». Victor Willis l’adottò subito, e trovò anche un’inquietante coincidenza nella storia. Quasi un secolo prima, Katherine Anne Porter si era imbarcata con un gruppo di scienziati e di scrittori a bordo di un transatlantico per assistere al lancio dell’Apollo 17, alla fine della prima fase dell’esplorazione lunare.
«Ci penserò su» aveva ribattuto pensierosa la signorina M’Bala quando glielo riferirono. «Forse è il momento di stendere una terza versione. Ma, naturalmente, questo lo saprò soltanto quando avremo fatto ritorno sulla Terra…»
11. LA MENZOGNA
Passarono molti mesi prima che Rolf van der Berg potesse rivolgere ancora una volta i suoi pensieri e le sue energie al Monte Zeus. Per domare Ganimede bisognava lavorare a tempo pieno, e spesso lui doveva allontanarsi dal suo ufficio alla Base Dardano per settimane di fila per tracciare il percorso della monorotaia che avrebbe collegato Gilgamesh con Osiride.
La geografia della più grande delle lune galileiane — la terza da Giove — era mutata drasticamente con la trasformazione in sole del pianeta e ancora stava cambiando. Il nuovo sole che aveva fuso i ghiacci di Europa era, quattrocentomila chilometri più lontano, molto meno caldo, ma pur sempre caldo a sufficienza per determinare un clima temperato al centro della faccia volta perennemente verso di esso. Vi erano mari dalle acque basse — uno era grande quanto il Mediterraneo terrestre — che si spingevano fino a una latitudine di quaranta gradi, a nord e a sud. Non era rimasto molto della superficie del satellite così come l’avevano fotografata le missioni Voyager del XX secolo. La fusione del permafrost e qualche movimento tettonico, provocato dalle stesse forze gravitazionali che avevano agito sulle due lune più interne, avevano fatto di Ganimede l’incubo dei cartografi.
Ma al tempo stesso ne avevano fatto il paradiso degli ingegneri planetari. Ganimede era l’unico mondo, fatta eccezione per l’arido Marte, molto più inospitale, sul quale gli uomini potevano sperare di camminare un giorno liberamente. Ganimede aveva molta acqua, tutte le sostanze chimiche necessarie al sostentamento della vita e fin quando almeno Lucifero avesse dato luce e calore — un clima più caldo di gran parte della Terra.
Ma, soprattutto, le tute spaziali non erano più necessarie; l’atmosfera, sebbene ancora irrespirabile, era però abbastanza densa da consentire l’impiego di semplici respiratori a ossigeno. Nel giro di qualche decennio — così almeno promettevano i microbiologi, che però lasciavano nel vago la data precisa — si sarebbe potuto fare a meno anche dei respiratori. Già si erano disseminati su Ganimede ceppi di batteri produttori di ossigeno; molti erano morti ma alcuni si erano adattati, e prosperavano; e la curva in lenta ascesa del grafico relativo alla composizione dell’atmosfera veniva mostrata orgogliosamente per prima cosa ai visitatori della Base Bardano.
A lungo van der Berg tenne attentamente d’occhio i dati che giungevano da Europa VI, sperando che un giorno la coltre di nuvole si sarebbe aperta proprio quando il satellite avesse sorvolato il Monte Zeus. Si rendeva conto che ciò era poco probabile, ma restava pur sempre possibile; quindi non intendeva imboccare altre linee di ricerca. Non aveva fretta: aveva altre cose ben più importanti da fare e, comunque, la spiegazione sarebbe potuta essere banale, poco interessante.
Poi Europa VI a un tratto smise di funzionare — quasi sicuramente perché colpita da un meteorite. Sulla Terra, Victor Willis aveva fatto la figura del cretino — così almeno ritenevano molti — intervistando i patiti di Europa, che avevano preso il posto degli ufologi del secolo precedente. Alcuni di costoro dissero che la sonda aveva smesso di funzionare a causa di un atto ostile: che avesse funzionato per quindici anni — e cioè per un periodo di tempo quasi doppio rispetto a quello previsto dai progettisti — era cosa che non li toccava minimamente. Va detto, a credito di Victor, che diede gran peso a quest’ultima argomentazione e ridicolizzò i fanatici: ma molti restarono dell’opinione che aveva sbagliato a far loro tanta pubblicità.
Per van der Berg, che con soddisfazione si sentiva chiamare «quella testa dura di un olandese», e che faceva di tutto per essere all’altezza della sua reputazione, il silenzio di Europa VI fu una sfida irresistibile. Non c’era la minima speranza che il satellite venisse sostituito: anzi, il guasto definitivo della sonda troppo garrula e troppo longeva era stato accolto con grande soddisfazione.
C’era qualche alternativa? Van der Berg si mise a pensarci su. Poiché era geologo e non astrofisico, gli ci vollero alcuni giorni per capire che la risposta l’aveva lì sotto gli occhi dal giorno in cui aveva messo piede su Ganimede.
L’afrikaans è forse, tra le lingue del mondo, la più adatta per imprecare; anche quando lo si parla in tutta cortesia, può ferire la sensibilità degli incolpevoli presenti. Van der Berg disse tutto quello che pensava per qualche minuto; dopo di che chiamò l’Osservatorio Tiamat, posto esattamente sull’equatore, sotto il minuscolo e accecante disco di Lucifero perennemente a perpendicolo nel cielo.