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Lì invece nulla era più vecchio di un migliaio di anni; le piramidi erano molto più antiche di quel paesaggio. Ogni volta che girava attorno al Sole, la Cometa di Halley veniva fusa, rimodellata e diminuita dal calore solare. Il nucleo era cambiato un poco anche rispetto al passaggio del 1986. Manipolando spudoratamente le metafore, Victor Willis aveva colto nel segno dicendo ai suoi ascoltatori: «All’arachide sta venendo la vita di vespa!». Infatti tutto faceva pensare che, dopo qualche altra rivoluzione attorno al Sole, la Cometa di Halley si sarebbe divisa in due parti uguali, come era avvenuto con la Cometa di Biela, con grande stupore degli astronomi del 1846.

Anche la bassissima gravità contribuiva a rendere il paesaggio estremamente bizzarro. L’astronave infatti era circondata da formazioni tutte ad angoli acuti che parevano scaturite dalla fantasia di un pittore surrealista, e da cumuli di rocce di forma grottesca che non sarebbero riusciti a stare in piedi per più di pochi minuti nemmeno sulla Luna.

Sebbene il capitano Smith avesse deciso di far posare la Universe nel più profondo della notte polare — e cioè a cinque chilometri dalla rovente luce del Sole — c’era luce più che a sufficienza. Il vasto involucro di gas e di polveri che circondava la cometa formava un alone risplendente perfettamente appropriato al punto scelto per l’atterraggio; era facile immaginare che fosse l’aurora boreale che splendeva sopra i ghiacci dell’Antartico. E come se non bastasse, Lucifero faceva la sua parte emettendo la luce di un centinaio di Lune piene.

Benché fosse stata prevista, l’assenza di colore fu un po’’ una delusione; era come se la Universe avesse preso terra in una miniera di carbone a cielo aperto: e l’analogia calzava perfettamente, perché il nero paesaggio che la circondava era per lo più costituito da carbonio e da suoi composti intimamente mescolati a ghiaccio e neve.

Il capitano Smith, come voleva l’usanza, fu il primo a scendere dall’astronave saltando dal portello stagno principale della Universe. Parve gli ci volesse un’eternità perché toccasse il suolo due metri più sotto; quindi si chinò, raccolse con la mano guantata una manciata di polvere e la esaminò.

A bordo dell’astronave, tutti aspettavano le parole che sarebbero poi entrate nei libri di storia.

«Sembra sale e pepe» disse il capitano Smith. «Una volta sciolta, potrebbe far crescere un bel raccolto.»

* * *

II programma prevedeva di fermarsi per tutto un «giorno» di Halley — cinquantacinque ore — al Polo Sud, e quindi, se tutto fosse andato regolarmente, di spostarsi sull’equatore, ancora mal definito e una decina di chilometri lontano, per studiare il comportamento di un geyser durante un ciclo completo nottegiorno.

Lo scienziato capo, Pendrill, non perse tempo. Immediatamente salì insieme al collega su una piattaforma a reazione a due posti e si diresse verso il segnale luminoso della sonda. Ritornarono un’ora dopo portando campioni del nucleo che misero subito nel surgelatore.

Nel frattempo altre squadre tesero tutto intorno all’astronave una ragnatela di cavi sospesi a pali conficcati nel suolo friabile. Essi servivano non solo a collegare vari strumenti all’astronave, ma anche ad agevolare lo spostamento degli uomini. In questo modo si poteva esplorare quella parte della Cometa di Halley senza dover ricorrere alle ingombranti Unità di Manovra Esterna; bastava attaccare un moschettone a un cavo e quindi spostarsi a forza di braccia. Era un modo di muoversi molto più divertente che manovrare le UME, che praticamente erano navi spaziali monoposto, e quindi molto complicate.

I passeggeri guardavano interessati tutto quel movimento, ascoltavano le conversazioni via radio e cercavano di partecipare anch’essi all’eccitazione della scoperta. Dopo dodici ore circa, molto meno nel caso dell’ex astronauta Clifford Greenberg, cominciarono ad averne abbastanza di far solo da spettatori. Si cominciò a parlare sempre più spesso di «andar fuori», con l’eccezione di Victor Willis, il quale si mostrava stranamente silenzioso.

«Avrà paura» disse con sprezzo Dimitri. Da quando aveva scoperto che Victor era completamente sordo alla musica, lo aveva preso in antipatia. E sebbene ciò fosse molto ingiusto nei confronti di Victor (che si era prestato a far da cavia in occasione di vari studi compiuti sul suo curioso disturbo), Dimitri ripeté come al solito: «Uno che non ha musica dentro di sé è portato al tradimento, agli inganni e alla frode».

Floyd aveva deciso ancora prima di lasciare l’orbita della Terra. Maggie M aveva un temperamento sportivo che non si tirava indietro davanti a nulla, e non aveva bisogno di incoraggiamenti (la sua vita sentimentale, come tutti sapevano, aveva tenuto fede al suo motto: «Mai uno scrittore deve rifiutare l’opportunità di una nuova esperienza»).

Yva Merlin, come al solito, aveva tenuto tutti in sospeso, ma Floyd era deciso a farle fare il giro turistico della cometa in sua compagnia. Era il minimo che potesse fare per restare all’altezza della sua reputazione; tutti sapevano che era stato anche merito suo se il famoso personaggio aveva accettato d’imbarcarsi, e ora si mormorava, non si sa quanto sul serio, che tra loro due c’era del tenero. Ogni loro parola, anche la più innocente, veniva malignamente e allegramente male interpretata da Dimitri e dal medico di bordo, il dottor Mahindran, che fingeva di provare nei loro confronti stupore e invidia.

Floyd si era in un primo momento seccato — perché la situazione richiamava troppo bene le emozioni della gioventù — ma poi era stato al gioco. Però non sapeva come la prendesse Yva, e fino a quel momento non aveva avuto il coraggio di chiederglielo. Anche in quel gruppo estremamente ristretto, in cui ogni segreto durava al massimo sei ore, Yva continuava a circondarsi del suo famoso velo di riserbo, quell’aura di mistero che aveva affascinato il pubblico per tre generazioni.

In quanto a Victor Willis, aveva appena scoperto uno di quei piccoli particolari dagli effetti devastanti che possono mandare all’aria i piani meglio costruiti.

La Universe aveva in dotazione le tute spaziali Mark XX ultimo modello, fornite di visori antiappannamento e antiriflesso, garantiti per la miglior visione possibile nello spazio. E sebbene i caschi fossero di dimensioni diverse, Victor Willis avrebbe potuto infilarsene uno solo a patto di un grosso intervento chirurgico.

Gli erano occorsi quindici anni per portare alla perfezione la sua immagine pubblica («Un trionfo dell’arte della potatura» l’aveva definita qualcuno, forse non senza ammirazione).

Ora tra Victor Willis e la Cometa di Halley si frapponeva un unico ostacolo: la sua barba. Presto avrebbe dovuto scegliere tra l’una e l’altra.

17. LA VALLE DELLA NEVE NERA

II capitano Smith non aveva praticamente sollevato obiezioni a che i passeggeri si dessero all’EVA (Extra Vehicular Activity). Non aveva potuto fare a meno di ammettere che essere arrivati fin lì e non posare piede sul nucleo era assurdo.

«Se seguirete le istruzioni non vi saranno problemi,» disse dopo aver come al solito convocato i passeggeri «anche se è la prima volta che indossate la tuta spaziale… e credo che solo il comandante Greenberg e il dottor Floyd abbiano esperienza al riguardo. Sono molto comode, e completamente automatiche. Non c’è bisogno di regolazioni o altro, dopo il controllo nella camera stagna.

«Ma c’è una regola che assolutamente va rispettata: non più di due passeggeri per volta possono trovarsi in EVA. Avrete ciascuno un accompagnatore, naturalmente, che sarà collegato a voi con un cavo di sicurezza lungo cinque metri… ma che può venir svolto fino a una lunghezza di venti metri, se necessario. Oltre a ciò, voi e il vostro accompagnatore sarete agganciati ai due cavi guida che abbiamo teso per tutta la lunghezza della valle. Ricordate che qui vige la stessa norma di circolazione della Terra: tenere la destra! Se volete superare qualcuno che vi precede, basta staccare il moschettone dal cavo… ma uno dei due dovrà sempre restare agganciato. In questo modo non correrete il rischio di andare alla deriva nello spazio. Domande?»