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«Per quanto tempo possiamo restare fuori?»

«Quanto vi pare, signorina M’Bala. Ma io vi consiglio di tornare non appena avvertite il minimo disturbo. Forse per la prima volta sarà meglio non superare l’ora, anche se vi sembrerà lunga soltanto dieci minuti…»

Il capitano Smith aveva visto giusto. Mentre Heywood Floyd guardava il piccolo schermo che riportava il tempo che gli restava, gli pareva impossibile che fossero già passati quaranta minuti. Eppure non era tanto strano, visto che l’astronave si trovava a un chilometro buono alle sue spalle.

Essendo il passeggero più anziano — in tutti i sensi — era toccato a lui il privilegio di compiere la prima EVA. E la scelta di chi sarebbe andato con lui era fuori questione.

«EVA con Yva!» esclamò ridacchiando Mihailovic. «Come si può resistere a una tentazione del genere? Anche se» aggiunse con un sorriso carico di sottintesi «queste tute maledette non ti lasciano fare tutta l’attività extraveicolare che vorresti.»

Yva aveva acconsentito, senza esitazione ma senza entusiasmo. Tipico di lei, aveva pensato un po’’ cinicamente Floyd. Non che ciò fosse per lui il crollo di un mito — alla sua età, di miti gliene restavano ben pochi — ma una delusione sì. E Floyd era rimasto deluso di se stesso più che di Yva, che era al di sopra di ogni critica e di ogni elogio come la Monna Lisa, alla quale era stata così spesso paragonata.

Era, naturalmente, un paragone ridicolo; la Gioconda era sì misteriosa, ma niente affatto erotica. Il fascino di Yva consisteva invece nell’essere l’una e l’altra, e anche innocente, per buona misura. Mezzo secolo dopo, le tracce di questi tre ingredienti erano ancora visibili, almeno agli occhi di chi l’aveva amata.

Ciò che a Yva mancava — era stato costretto a confessare, pur con riluttanza, Floyd — era una vera personalità. Quando pensava a lei, ritrovava solo le varie parti che Yva aveva recitato. E tristemente gli tornava alla mente ciò che aveva detto una volta un critico: «Yva Merlin è il riflesso dei desideri di tutti gli uomini; ma uno specchio non ha carattere».

E ora questo essere eccezionale e misterioso fluttuava al suo fianco sul nucleo della Cometa di Halley mentre insieme alla guida si spostavano lungo i due cavi che attraversavano la Valle della Neve Nera. Così l’aveva chiamata lui, Floyd; e lui era infantilmente orgoglioso di questo nome, anche se non sarebbe mai comparso su nessuna carta geografica. Non si poteva cartografare un mondo la cui geografia era mutevole quanto il tempo atmosferico della Terra. Egli assaporò la consapevolezza che mai occhio umano aveva visto la scena che lo circondava, né l’avrebbe vista in futuro.

Su Marte, o sulla Luna, si poteva certe volte — con un minimo sforzo d’immaginazione, e a patto di ignorare il cielo alieno — far finta di trovarsi sulla Terra. Lì era impossibile, perché le torreggianti — e spesso opprimenti — sculture di neve tenevano in scarsissimo conto la forza di gravità. Bisognava guardarsi in giro molto attentamente per stabilire dov’era l’alto e dove il basso.

La Valle della Neve Nera era un caso molto particolare, perché era ben solida e definita, una cresta rocciosa incastonata in mutevoli formazioni d’acqua e di idrocarburi ghiacciati. I geologi non si erano ancora messi d’accordo sull’origine della valle, e alcuni sostenevano che si trattasse del frammento di un asteroide venuto a collisione con la cometa in un lontano passato. Da perforazioni compiute in profondità era stata riscontrata la presenza di complessi composti organici simili a catrame congelato, anche se era certo che tali sostanze non avevano avuto origine da forme di vita.

La «neve» che ricopriva il suolo della valle non era completamente nera; quando Floyd la illuminava con il raggio della torcia elettrica brillava come se in essa fossero contenuti milioni di minuscoli diamanti. Floyd si chiese se sulla Cometa di Halley ci potessero essere diamanti: di carbonio ce n’era in abbondanza. Però quasi certamente l’astro non aveva mai conosciuto le pressioni e le temperature necessarie per la formazione del diamante.

Mosso da un subitaneo impulso Floyd si chinò per raccogliere una manciata di «neve»: per far questo dovette far pressione con i piedi contro il cavo guida, e pensò che doveva sembrare un acrobata che cammina sul filo, ma a testa in giù. La fragile crosta non offrì nessuna resistenza mentre vi affondava la testa e le spalle; quindi Floyd si tirò su lentamente, tendendo il cavo di sicurezza, con la sua manciata di Cometa di Halley.

Schiacciando la leggera sostanza cristallina fino a formare una palla grossa quanto il cavo di una mano, Floyd avrebbe voluto sentirla attraverso lo spessore dei guanti isolanti. E poi infine eccola lì, una sfera nera come l’ebano ma che gettava piccoli lampi di luce mentre egli la rigirava prima da una parte e poi dall’altra.

E a un tratto, nella sua immaginazione, la sfera si fece bianca, ed eccolo tornato bambino a giocare con la neve, circondato dai fantasmi della sua infanzia. Risentiva perfino le grida dei suoi compagni di gioco che lo provocavano e lo minacciavano con le loro palle di neve…

Questa visione del passato fu brevissima ma molto intensa, perché portava con sé un’infinita malinconia. Un secolo dopo, non ricordava più nemmeno uno di quei fantasmi che lo circondavano, sebbene alcuni, lo sapeva, li avesse molto amati.

Gli vennero le lacrime agli occhi mentre stringeva in mano quella palla di neve aliena. Poi quello stato d’animo passò, e fu di nuovo se stesso. Non era occasione di malinconia, quella, ma di trionfo.

«Dio mio!» gridò Heywood Floyd, e il grido risuonò nel minuscolo ed echeggiante mondo della tuta spaziale. «Eccomi qui a passeggiare sulla Cometa di Halley… che cos’altro potrei desiderare? Se una meteora mi colpisse in questo momento, morirei felice!»

Tese il braccio e scagliò la palla di neve verso il cielo. Era così piccola, così scura, che scomparve alla vista quasi subito; lui però continuò a tenere gli occhi fissi verso il cielo.

E poi, a un tratto, senza preavviso, la palla di neve nera ricomparve con un’improvvisa esplosione di luce, colpita dai raggi del Sole nascosto. Era nera come fuliggine, ma rifletteva luce a sufficienza perché la si potesse distinguere sullo sfondo del cielo debolmente luminoso.

Floyd attese finché non scomparve, disintegratasi durante il tragitto, o giunta ormai troppo lontano per essere vista. Non sarebbe comunque durata a lungo nell’ardente torrente di radiazioni che inondava lo spazio; ma quanti uomini potevano vantarsi di aver creato una loro cometa personale?

18. IL VECCHIO FEDELE

La cauta esplorazione della cometa era già iniziata mentre la Universe rimaneva ancora nelle tenebre polari. Dapprima alcune UME monoposto sorvolarono sia la faccia diurna, sia quella notturna riprendendo tutto ciò che sarebbe potuto risultare interessante. Completata l’esplorazione preliminare, gli scienziati s’imbarcarono sulla navetta di bordo per collocare attrezzature e strumenti nei punti strategici.

La Lady Jasmine assomigliava pochissimo alle rozze piattaforme spaziali dei tempi della Discovery, in grado di funzionare solo a zero g. La navetta era praticamente una piccola astronave progettata per trasportare personale e carico tra l’astronave madre in orbita e la superficie di Marte, della Luna o dei satelliti di Giove. Il primo pilota, che la trattava come la gran dama che era, si lamentava con scherzoso risentimento che girare attorno a una miserabile cometa era un compito che mal si addiceva alla dignità della sua nave.

Quando il capitano Smith fu certo che la Cometa di Halley non nascondeva — almeno in superficie — sorpresa alcuna, si alzò dal polo antartico. Uno spostamento di dieci o dodici chilometri portò la Universe in un mondo tutto diverso: da un crepuscolo scintillante che sarebbe durato per mesi a un ambiente che conosceva il passaggio dalla notte al giorno. E, con l’alba, la cometa tornò lentamente alla vita.