Quando il Sole saliva sopra l’angusto orizzonte, assurdamente vicino, i suoi raggi illuminavano obliqui gli innumerevoli piccoli crateri che segnavano il nucleo. La maggior parte restavano inattivi, giacché gli stretti sfiatatoi erano bloccati da incrostazioni di sali minerali. In nessun altro punto della Cometa di Halley si vedevano colori così spiccati; tanto che in un primo momento i biologi avevano creduto, a torto, che anche qui, come sulla Terra, la vita stesse iniziando in forma di alghe microscopiche. E molti non avevano ancora abbandonato questa speranza, sebbene fossero molto riluttanti ad ammetterlo.
Da altri crateri sbuffi di vapore s’innalzavano verso il cielo secondo traiettorie innaturalmente rettilinee perché non esisteva vento. Di solito null’altro accadeva per un paio d’ore; poi, via via che il calore del Sole scaldava l’interno congelato del nucleo, la Cometa di Halley cominciava, come diceva Victor Willis, «a soffiare come un branco di balene».
La metafora era pittoresca, ma non molto accurata. Gli sbuffi di vapore che salivano dalla faccia diurna della cometa non erano intermittenti, ma continuavano per ore e ore senza smettere mai. E poi non ricadevano sulla superficie, ma salivano dritti verso il cielo fin quando non si dissipavano nella nebbia luminosa che essi stessi contribuivano a creare.
In un primo momento, l’equipe scientifica si accostò ai geyser con la stessa cautela di un gruppo di vulcanologi che si affacci sul cratere dell’Etna in un periodo di grande attività. Ma presto tutti si resero conto che sulla Cometa di Halley le eruzioni, per quanto spaventevoli a vedersi, erano innocue; l’acqua usciva dagli sfiatatoi con la stessa pressione di un normalissimo idrante, ed era appena appena tiepida. Pochi secondi dopo essere sfuggita dai bacini sotterranei si trasformava di colpo in vapore acqueo e cristalli di ghiaccio; la Cometa di Halley era perpetuamente investita da una tempesta di neve che cadeva verso l’alto. Ma anche a quella modestissima velocità, l’acqua non tornava mai là da dove era venuta. Ogni volta che girava attorno al Sole, la cometa perdeva nell’insaziabile vuoto dello spazio altra insostituibile linfa vitale.
Dopo un’insistente opera di persuasione, il capitano Smith acconsentì a far scendere la Universe a cento metri dal Vecchio Fedele, il geyser più grande che vi fosse sulla faccia diurna. Era una vista davvero notevole: una colonna biancogrigiastra di vapore acqueo che sorgeva come un albero gigantesco da uno sfiatatoio sorprendentemente piccolo posto nel mezzo di un cratere di trecento metri di diametro — probabilmente una delle formazioni più antiche della cometa. Non passò molto tempo che gli scienziati presero ad aggirarsi dentro il cratere, raccogliendo campioni di minerali multicolori (purtroppo completamente sterili) e immergendo con indifferenza termometri e sonde dentro la torreggiarne colonna fatta di vapore, di ghiaccio e di nebbia. «Se vi scaraventa nello spazio,» ammonì il capitano «non vi aspettate che venga a salvarvi tanto presto. Anzi, ci limiteremo ad attendere che ricaschiate giù.»
«Come sarebbe?» aveva chiesto Dimitri Mihailovic perplesso. Come al solito, Victor Willis fu il primo a rispondergli.
«Nella meccanica celeste, le cose non succedono sempre come ci si aspetta. Sulla Cometa di Halley, un oggetto che venga scagliato a moderata velocità nello spazio continuerà a muoversi sostanzialmente lungo la stessa orbita della cometa… ci vorrebbe una bella velocità perché le cose andassero altrimenti. Quindi, dopo una rivoluzione le due orbite s’intersecheranno un’altra volta, ed ecco che vi ritrovereste là dove siete partiti. Settantasei anni dopo, naturalmente.»
Non lontano dal Vecchio Fedele vi era anche un’altra cosa che nessuno avrebbe potuto prevedere. Quando lo videro per la prima volta, gli scienziati non riuscivano a credere ai loro occhi. Grande parecchi ettari, esposto al vuoto dello spazio, si stendeva un lago, un normalissimo lago, all’apparenza, tranne per il fatto che era completamente nero.
Ovviamente non poteva essere acqua; gli unici liquidi in grado di esistere in quell’ambiente potevano essere olii organici molto pesanti o catrame. In realtà il lago Tuonela era fatto di una sostanza simile alla pece, perfettamente solida tranne per un sottilissimo straterello superficiale di meno di un millimetro di spessore, che era vischioso. In quella gravità minima, ci dovevano essere voluti anni — e forse molti giri attorno ai caldi fuochi solari — perché l’ammasso di pece divenisse piatto come una lastra di vetro.
Fin quando il capitano Smith non lo proibì, il lago di pece fu una delle attrazioni turistiche più popolari della Cometa di Halley. Qualcuno (ma nessuno si fece avanti a reclamare per sé quel dubbio onore) aveva scoperto che era possibile camminare sul lago quasi come sulla Terra; la superficie infatti era vischiosa quel tanto da tenere i piedi al loro posto. In breve tempo, quasi tutto l’equipaggio si fece filmare mentre camminava — si sarebbe detto — sull’acqua.
Poi il capitano Smith fece un’ispezione alla camera stagna, vide le paratie abbondantemente spalmate di catrame e andò su tutte le furie.
«Già è abbastanza brutto» disse a denti stretti «che l’esterno dell’astronave sia tutto sporco di questa… di questa fuliggine. La Cometa di Halley è il posto più lurido che abbia mai visto.»
Dopo di che, non si fecero altre passeggiate sul lago Tuonela.
19. ALLA FINE DEL TUNNEL
In un piccolo universo chiuso in cui tutti si conoscono non vi può essere shock più notevole che trovarsi faccia a faccia con un perfetto sconosciuto.
Heywood Floyd stava fluttuando nel corridoio che portava al salone quando ebbe questa sgradevole esperienza. Fissò stupefatto l’intruso, chiedendosi come avesse potuto un clandestino rimanere nascosto per tanto tempo. L’altro reagì fissandolo a sua volta tra l’imbarazzato e lo spavaldo, in attesa che Floyd parlasse per primo.
«Victor!» disse infine Floyd. «Scusa, ma proprio non ti ho riconosciuto. Dunque hai fatto il supremo sacrificio per la causa della scienza… o dovrei dire per la causa del tuo pubblico?»
«Sì» rispose cupamente Victor Willis. «Ero riuscito a infilarmi uno di quei maledetti caschi, ma i peli della barba grattavano con un rumore tale che non si sarebbe sentita una parola di quello che avrei detto.»
«Quando esci?»
«Non appena ritorna Cliff… è andato a esplorare una caverna con Bill Chant.»
Dai dati inviati dalle prime sonde che si erano avvicinate alla cometa, nel 1986, si era capito che il nucleo era parecchio meno pesante dell’acqua, il che poteva significare soltanto che o era fatto di materiale molto poroso o che vi erano nel suo interno molte cavità. Entrambe le spiegazioni si rivelarono corrette.
In un primo momento il capitano Smith, prudente come al solito, non ne volle assolutamente sapere di esplorazioni speleologiche. Dopo qualche tempo, però, cedette quando il dottor Pendoli gli ricordò che il suo primo assistente, il dottor Chant, era un esperto speleologo, e che anzi proprio per questo era stato prescelto per la missione.
«Con la gravità così bassa» aveva detto Pendrill al capitano «una frana è impossibile. Dunque non vi è nessun pericolo di rimanere intrappolati.»
«Ma rimane il rischio di perdersi.»
«Chant lo considererebbe un insulto alle sue capacità professionali. Si è inoltrato per venti chilometri nella Grotta del Mammut. Comunque, può restare collegato con un cavo.»
«E per le comunicazioni?»
«Il cavo contiene anche delle fibre ottiche. E la radio della tuta probabilmente funzionerà benissimo per un bel pezzo.»