Tuttavia la proposta sul «Tempo uguale nel Sole» era rimasta sulla carta, insieme a tentativi ancor più clamorosi di riformare il calendario. Questa peculiare impresa, aveva cinicamente suggerito qualcuno, avrebbe dovuto attendere qualche importante progresso tecnologico.
Certo, un giorno avrebbero corretto il piccolo errore di Dio, e l’orbita della Terra sarebbe stata sistemata in modo da avere ogni anno dodici mesi o trenta giorni perfettamente uguali…
Da quel che Poole riusciva a valutare in base alla velocità e al tempo trascorso, dovevano aver percorso almeno tre chilometri prima che il veicolo si arrestasse silenzioso, le porte si aprissero e una melliflua voce artificiale intonasse: «Godetevi il panorama. Trentacinque per cento di cielo coperto oggi».
Era ora, pensò Poole, siamo vicini alla parete esterna.
Ma qui c’era un altro mistero: nonostante la distanza percorsa, né la forza né la direzione della gravità erano mutate! Non riusciva a immaginare una stazione spaziale ruotante di tale ampiezza che il vettore di gravità non venisse alterato da uno spostamento del genere… E se, a conti fatti, si fosse trovato invece su qualche pianeta? Ma avrebbe dovuto sentirsi più leggero — di solito molto più leggero — su qualsiasi altro mondo abitabile del sistema solare.
Quando la porta esterna del terminal si aprì e Poole si ritrovò in una camera di compensazione, capì che doveva essere sicuramente nello spazio. Ma dov’erano le tute spaziali? Si guardò attorno ansioso; era contrario a tutti i suoi istinti trovarsi così vicino al vuoto senza alcuna protezione addosso. Un’esperienza di quel tipo gli bastava e avanzava…
«Tra poco ci siamo», disse Indra in tono rassicurante.
L’ultima porta si aprì e Poole osservò l’oscurità totale dello spazio attraverso un finestrone immenso che sporgeva ricurvo. Si sentiva come un pesce rosso in una vaschetta e sperò che i progettisti di quell’audace opera di ingegneria sapessero con esattezza quel che facevano. Di certo erano in possesso di materiali strutturali migliori rispetto a quelli che erano esistiti tanto tempo fa.
Anche se fuori le stelle dovevano brillare come al solito, i suoi occhi abituati alla luce non riuscivano a vedere nient’altro che il nero vuoto al di là della curvatura del finestrone. Stava per avvicinarsi in modo da avere una visuale più ampia, quando Indra lo trattenne e indicò un punto davanti a loro.
«Guarda con attenzione», lo invitò. «Non lo vedi?»
Poole batte le palpebre e fissò la notte. Doveva sicuramente trattarsi di un’illusione ottica oppure, Dio non voglia, di una crepa nella finestra.
Girò il capo da una parte e dall’altra. No, era vero. Ma cosa poteva essere? Ricordò la definizione di Euclidei «Una retta ha lunghezza, ma non spessore». Perché, per tutta l’altezza del finestrone e continuando certamente fuori dalla visuale sia verso l’alto sia verso il basso, c’era un filo di luce che riusciva a vedere facilmente se lo fissava con attenzione, ma talmente unidimensionale che non gli si poteva applicare nemmeno l’aggettivo «sottile». Tuttavia non era solo un filo: per tutta la sua lunghezza c’erano puntini appena visibili di maggiore intensità a intervalli irregolari, come gocce d’acqua su una tela di ragno.
Poole continuò a dirigersi verso il finestrone e la visuale si ampliò fin quando non riuscì a vedere quel che c’era sotto di lui. Era piuttosto familiare: l’intera Europa e gran parte dell’Africa settentrionale, proprio come le aveva viste tante volte dallo spazio. Quindi era in orbita, dopotutto — probabilmente un’orbita equatoriale, a un’altezza di almeno mille chilometri.
Indra lo guardava con un sorriso beffardo.
«Avvicinati alla finestra», lo incitò a voce bassa. «In modo che tu possa guardare in giù. Spero che l’altezza non t’impressioni.»
Dire una cosa del genere a un astronauta è davvero stupido, pensò Poole mentre avanzava. Se avessi sofferto di vertigini, non avrei fatto questo lavoro…
Il pensiero gli aveva appena attraversato la mente quando esclamò: «Oddio!» e involontariamente fece un passo indietro, allontanandosi dalla finestra. Poi, facendosi coraggio, guardò di nuovo.
Stava osservando sotto di sé il Mediterraneo dalla facciata di una torre cilindrica, le cui pareti leggermente incurvate indicavano un diametro di parecchi chilometri. Ma non era niente in confronto all’altezza, perché si assottigliava sempre di più verso il basso fino a sparire in mezzo alle brume che sovrastavano una parte dell’Africa. Evidentemente continuava fino alla superficie, riflette Poole.
«A che altezza siamo?» mormorò.
«Duemila chilometri. Ma adesso guarda in alto.»
Questa volta non fu altrettanto scioccante: si era aspettato di vedere quello che ora stava osservando. La torre rimpiccioliva fino a diventare un filo scintillante nell’oscurità dello spazio e Poole non dubitò che continuasse fino all’orbita geostazionaria, trentaseimila chilometri sopra l’equatore. Simili chimere erano ben note all’epoca di Poole; ma non avrebbe mai pensato di vederle realizzate… e di viverci dentro.
Indicò il filo lontano che si levava dall’orizzonte a oriente.
«Quella dev’essere un’altra.»
«Sì… la Torre Asiatica. Noi dobbiamo apparire esattamente lo stesso a loro.»
«Quante ce ne sono?»
«Solo quattro, a distanza uguale attorno all’equatore. Africa, Asia, America, Pacifica. L’ultima è quasi vuota… sono pronte solo poche centinaia di livelli. E non c’è altro da vedere se non acqua…»
Poole stava ancora cercando di capacitarsi di quello stupefacente concetto quando gli venne un pensiero che lo preoccupò.
«C’erano già migliaia di satelliti a tutte le altitudini ai miei tempi. Come fate a evitare collisioni?»
Indra apparve un po'’ imbarazzata.
«Sai… non ci ho mai pensato… non è il mio campo.» Si fermò un istante, evidentemente cercando nella memoria. Poi il viso le si illuminò.
«Credo che ci sia stata una grande operazione di pulizia, secoli fa. Non ci sono più satelliti sotto l’orbita geostazionaria.»
Adesso era chiaro, si disse Poole. Non ce n’era più bisogno — le quattro immense torri potevano fornire tutti i servizi un tempo forniti da migliaia di satelliti e stazioni spaziali.
«E non ci sono mai stati incidenti… collisioni con astronavi in partenza dalla Terra o che rientravano nell’atmosfera?»
Indra lo guardò sorpresa.
«Ma non lo fanno più.» Indicò il soffitto. «Tutti gli spazioporti sono dove dovrebbero stare… lassù, sull’anello esterno. Mi pare che siano passati quattrocento anni da quando l’ultimo razzo si è levato dalla superficie della Terra.»
Poole stava assimilando anche questa notizia quando un’insignificante anomalia attirò la sua attenzione. Il suo addestramento da astronauta lo rendeva attento a tutto quanto fosse fuori dall’ordinario; nello spazio poteva trattarsi di una questione di sopravvivenza.
Il Sole non si vedeva, era molto più in alto. I raggi, filtrando attraverso il finestrone, creavano una striscia scintillante sul pavimento. Ma ce n’era un’altra che la attraversava a una certa angolatura, una striscia molto meno intensa. Ne risultava che l’intelaiatura del finestrone gettava una doppia ombra.
Poole dovette quasi mettersi in ginocchio per poter sbirciare il cielo. Pensava che nulla potesse più sorprenderlo, ma la visione di due soli lo lasciò momentaneamente senza parole.
«E quello che cos’è?» ansimò dopo aver ripreso fiato.
«Ah… non te l’hanno detto? È Lucifero.»
«La Terra ha due soli?»
«Be’, non ci da molto calore, ma ha finito per soppiantare la Luna… Prima che la Seconda Missione andasse lassù a cercarti, quello era il pianeta Giove.»
Sapevo che avrei avuto molto da imparare in questo nuovo mondo, riflette Poole. Ma non immaginavo di certo quanto.