Questa volta Tom fa una cosa che non ha mai fatto: carica. Non sapendo cosa fare, mi giro, defletto la sua spada con la mia e cerco di tirare un affondo con lo stocco. Ma lui si sta muovendo troppo rapidamente, quindi lo manco. Tom alza lo stocco, esegue un allungo e mi colpisce alla sommità della testa.
— Toccato! — dice.
— Come hai fatto? — chiedo.
— È il colpo segreto che riserbo per i tornei — risponde Tom spingendo indietro la maschera. — Qualcuno lo inflisse a me dodici anni fa e io tornai a casa e mi allenai finché non riuscii a farlo bene… adesso però lo uso solo per le gare. Ma tu sei pronto per impararlo. Non è poi tanto difficile. Il trucco è uno solo.
— Ehi, non ho visto bene! — grida Don dall'altra parte del cortile. — Fallo di nuovo!
— Qual è il trucco? — domando.
— Lo dovrai capire da te. Te l'ho fatto vedere, no? Sarò felice se imparerai il mio colpo, ma la dimostrazione che te ne ho fatto basta e avanza.
— Tom, a me però non l'hai mostrato bene. Rifallo — dice Don.
— Tu non sei pronto — risponde Tom. — Dovrai guadagnartelo. — Adesso sembra in collera, come prima Lucia. Cos'ha fatto Don per farli irritare?
Mi tolgo la maschera e vado vicino a Marjory. Dall'alto vedo le luci che si riflettono nei suoi capelli. Mi chiedo cosa si proverebbe a toccarli.
— Prendi il mio posto — dice Lucia. — Voglio fare un altro incontro.
Mi siedo, molto conscio della vicinanza di Marjory. — Oggi non ti batti? — chiedo.
— No, dovrò andarmene presto. La mia amica Karen arriva all'aeroporto e devo andare a prenderla. Sono passata di qui solo per vedere… qualcuno.
Vorrei dirle che sono felice che l'abbia fatto, ma le parole mi restano in gola. — Da dove viene Karen? — domando alla fine.
— Da Chicago. È andata a far visita ai genitori. — Si volge a guardarmi. — Ti fermi molto qui, stasera?
— Non molto — dico. Se lei se ne va, io tornerò a casa.
— Vuoi venire all'aeroporto con me? Poi ti riporterei qui per prendere la tua macchina. Però farai un po' tardi, l'aereo arriva alle dieci e un quarto.
Andare in auto con Marjory? Sono così sorpreso e felice che per un lungo istante non riesco a muovermi. — Sì — dico. — Sì. — Sento un gran caldo alla faccia.
Mentre andiamo all'aeroporto guardo dal finestrino. Mi sento leggero come se potessi fluttuare nell'aria. — Quando si è felici sembra che la gravità si riduca — dico.
— Leggeri come piume? — Marjory sorride. — È così che ci si sente?
— Non proprio come una piuma, piuttosto come un palloncino — dico.
— Conosco questa sensazione — annuisce lei. Però non dice che si sente così adesso. Io non so come si sente. Le persone normali lo capirebbero, ma io non posso. Più la conosco, più cose non capisco di lei. Non so neppure perché Tom e Lucia sono così cattivi con Don.
— Tom e Lucia sembravano irritati con Don — dico. Marjory mi lancia uno sguardo in tralice.
— Don a volte è una viperetta — risponde.
Don non è una vipera: è una persona. Le persone normali si esprimono così, cambiando il significato delle parole all'improvviso, eppure si capiscono. Io so, perché qualcuno me lo ha detto anni fa, che "vipera" certe volte vuol dire "persona cattiva". Ma se una persona è cattiva e uno vuol dire che è cattiva, perché non lo dice? Perché la chiama "vipera"?
Io però più che altro vorrei sapere perché Tom e Lucia sono in collera con Don. — Ce l'hanno con lui perché non fa gli stiramenti? — domando.
— No. — Adesso anche Marjory sembra irritata e io mi sento desolato. Cosa ho fatto? — Lui è… certe volte è proprio maligno, Lou. Fa dell'umorismo a spese di altri, e non fa ridere nessuno.
Un isolato dopo lei aggiunge a bassa voce: — Fa dell'umorismo su di te, e a noi questo non piace.
Non so cosa dire. Don scherza su tutto, anche su Marjory. A me non piacciono i suoi scherzi, ma non reagisco. Avrei dovuto farlo? Marjory torna a guardarmi e capisco che vuole che io dica qualcosa. Ma cosa?
— I miei genitori dicevano che arrabbiarsi con una persona non la fa comportare meglio — dico infine.
Marjory fa un suono buffo; non so cosa significhi. — Lou, a volte penso che tu sia un filosofo.
— No — dico. — Non sono abbastanza intelligente per essere un filosofo.
Marjory fa di nuovo quel suono.
Siamo arrivati all'aeroporto. Marjory si ferma al parcheggio a breve termine e ci dirigiamo al terminale.
Quando sono solo, mi diverto a vedere i cancelli automatici aprirsi e chiudersi, ma questa sera non ci faccio caso. Marjory si ferma a leggere il cartello degli arrivi e delle partenze. Io ho già visto il volo che dobbiamo aspettare: da Chicago, atterraggio previsto per le 10.15, porta diciassette.
All'entrata di sicurezza per gli arrivi mi sento un poco inquieto. So come si fa, me lo hanno insegnato i miei genitori e l'ho fatto altre volte. Bisogna vuotare le tasche di tutti gli oggetti metallici e metterli in un canestrino, poi si aspetta il proprio turno e si passa sotto un arco. Se nessuno mi fa domande, la cosa è facile. Ma se mi parlano non sempre posso sentir bene ciò che mi dicono: qui c'è troppo rumore, troppi echi rimbalzano in questo ambiente cavernoso.
Marjory passa per prima: mette la borsetta sul nastro trasportatore e le chiavi nel canestrino. Passa sotto l'arco e nessuno le dice niente. Io metto le mie chiavi, il portafogli e il portamonete nel canestrino e passo sotto l'arco. Tutto tranquillo. L'uomo in uniforme mi guarda mentre riprendo le mie cose e me le rimetto in tasca. Mi volto verso Marjory che aspetta qualche metro più in là. Ma l'uomo parla.
— Posso vedere il suo biglietto, per favore? E un documento d'identità?
Un brivido freddo mi scuote. Sono entrate diverse altre persone prima di me e lui non ha chiesto niente a nessuno. E poi non c'è bisogno di un biglietto per entrare nella parte dell'aeroporto riservata agli arrivi; il biglietto si esibisce solo all'entrata riservata alle partenze.
— Non ho un biglietto — dico.
— E un documento d'identità? — insiste l'uomo. Mi fissa e la sua faccia comincia a diventare lucida. Tiro fuori il portafogli e lo apro allo scomparto riservato alla carta d'identità. Lui le dà un'occhiata e poi torna a guardarmi. — Se non ha un biglietto, cosa sta facendo qui? — domanda.
Sento il mio cuore battere forte e un gran calore alla nuca. — Io… io… io…
— Parli, su — dice l'uomo accigliandosi. — O forse è balbuziente?
Io so che non sarò capace di parlare per diversi minuti, ormai. Frugo nel taschino della camicia e tiro fuori un cartoncino che tengo sempre lì. Lo porgo all'uomo che lo legge.
— Autistico, eh? Però lei prima parlava: un secondo fa mi ha risposto. Chi deve incontrare?
Marjory si è mossa e sta arrivando alle spalle dell'uomo. — Qualcosa non va, Lou?
— Non s'impicci, signora — la zittisce l'uomo senza guardarla.
— Quest'uomo è un mio amico — dice lei. — Dobbiamo incontrarci con una persona che arriverà col volo tre-otto-due alla porta diciassette. Non ho sentito suonare l'allarme… — Nella sua voce si sente una vibrazione di collera.
Adesso l'uomo si volge a guardarla e sembra rilassarsi. — Quest'uomo è con lei?
— Sì. C'è qualche problema?
— No, signora… lui sembrava solo un po' strano. Credo che questo… — alza il cartoncino che ha ancora in mano — spieghi tutto. Ma se è con lei…
— Io non sono la sua guardiana — dice Marjory con lo stesso tono che ha usato quando ha definito Don "una viperetta". — Lou è mio amico.
L'uomo alza le sopracciglia e fa una smorfia; poi mi restituisce il cartoncino e si volta. Io mi allontano con Marjory, che cammina con un passo un po' troppo veloce. Non diciamo nulla finché non arriviamo al salone d'aspetto per le porte da quindici a trenta.
Dalle grandi finestre si vede la pista che scintilla di luci: luci verdi e rosse sulle punte delle ali degli aeroplani, file di luci quadrate e più opache lungo i loro fianchi, a indicare dove sono i finestrini, fari dei piccoli veicoli che tirano i carrelli dei bagagli. Luci ferme e luci ammiccanti.