«Te lo chiedo da figlia» lo supplicò Rachel. «Non farlo. Pensaci bene. C'è un modo migliore di agire.»
«Non per me.»
Una scarica elettrica echeggiò dagli altoparlanti alle sue spalle e Sexton, voltandosi, vide una cronista televisiva ritardataria che, china sul podio, cercava di infilare il microfono su un supporto a collo d'oca.
"Chissà perché questi idioti non sono mai puntuali" pensò Sexton irritato. Nella fretta, la cronista fece cadere a terra la pila di buste.
"Dannazione!" Sexton marciò verso il podio, maledicendo la figlia per averlo distratto. Quando arrivò, la donna, in ginocchio, era intenta a raccogliere le carte. Sexton non riuscì a vederla in viso, ma ritenne che lavorasse per una delle reti televisive. Indossava un lungo cappotto di cachemire con sciarpa intonata e un basco di mohair con attaccato un pass della ABC.
"Che troia imbranata" pensò Sexton. «Dia a me» l'apostrofò, tendendo la mano.
La donna racimolò le ultime buste e gliele porse senza sollevare lo sguardo. «Mi scusi…» mormorò, con evidente imbarazzo. Avvilita e piena di vergogna, si affrettò a raggiungere il resto dei giornalisti.
Sexton contò rapidamente le buste. "Dieci. Bene." Nessuno gli avrebbe rovinato la festa. Ripreso il controllo, aggiustò i microfoni e rivolse un sorriso divertito ai presenti. «Meglio che le distribuisca subito, prima che qualcuno si faccia male!»
Il pubblico rise, impaziente.
Sexton avvertì la vicinanza della figlia, dietro il divisorio.
«Non farlo» gli disse Rachel. «Te ne pentirai.»
La ignorò.
«Ti chiedo solo di fidarti di me» continuò lei, a voce più alta. «È un errore.»
Sexton raccolse le buste, spianandone i bordi.
«Papà» lo supplicò Rachel con maggiore intensità. «Questa è la tua ultima possibilità di fare ciò che è giusto.»
"Ciò che è giusto?" Sexton coprì il microfono e si voltò, come a schiarirsi la gola. Sbirciò di nascosto la figlia. «Sei proprio come tua madre, idealista e limitata. Le donne non comprendono la vera natura del potere.»
Sedgewick Sexton aveva già dimenticato la figlia, quando si voltò verso il suo pubblico. A testa alta, aggirò il podio e consegnò la pila di buste nelle mani dei giornalisti trepidanti. Guardò le buste che rapidamente venivano distribuite. Sentì rompere i sigilli, e le buste che venivano stracciate come la carta dei regali di Natale.
Un improvviso silenzio scese sui presenti.
Sexton percepì che quello era il momento cruciale della sua carriera.
"Il meteorite è un falso. E sono io a rivelarlo."
Il senatore sapeva che ai membri della stampa sarebbe occorso un momento per comprendere la reale portata di ciò che stavano osservando: l'immagine di un pozzo di inserzione al di sotto della banchisa; un organismo marino vivente, quasi identico al fossile della NASA; le prove dell'esistenza di condri che si erano formati sulla Terra. Tutto portava a una sola sconvolgente conclusione.
«Signore?» balbettò un giornalista sbalordito, guardando nella busta. «È tutto vero?»
Sexton sospirò tristemente. «Sì, purtroppo.»
Mormorii confusi cominciarono a serpeggiare tra la folla.
«Vi lascerò un minuto per esaminare il materiale» disse Sexton «poi risponderò alle vostre domande cercando di fare luce su ciò che vedete.»
«Senatore?» fece un altro cronista, palesemente interdetto. «Queste immagini sono… autentiche? Non ritoccate?»
«Al cento per cento» fu la ferma risposta di Sexton. «Altrimenti non ve le avrei mostrate.»
La perplessità dei presenti sembrò aumentare e Sexton ebbe l'impressione di udire anche qualche risata. Non era affatto la reazione immaginata. Temette di avere sopravvalutato la capacità dei media di trarre le ovvie conclusioni.
«Ehm, senatore?» fece qualcuno, stranamente divertito. «Lei garantisce ufficialmente l'autenticità di queste immagini?»
Sexton cominciò a irritarsi. «Amici miei, ve lo ripeto per l'ultima volta: le prove in mano vostra sono attendibili al cento per cento. E, se qualcuno dimostrerà il contrario, mi mangerò il cappello!»
Sexton aspettò la risata, che non arrivò.
Silenzio assoluto. Sguardi disorientati.
Il cronista che aveva appena parlato si avvicinò a Sexton, sfogliando le sue copie. «Ha ragione, senatore. Questi sono documenti sensazionali.» Fece una pausa, grattandosi la testa. «Solo che non ci è chiaro il motivo che l'ha spinta a condividerli con noi, in questo modo, specialmente dopo avere negato con tanta decisione, in passato.»
Sexton non capiva di che parlasse. Il reporter gli porse le fotocopie. Sexton guardò i fogli e, per un attimo, la sua mente si svuotò.
Rimase senza parole.
Stava fissando fotografie mai viste. Immagini in bianco e nero. Due persone nude. Gambe e braccia intrecciate. Per un istante non ebbe idea di cosa stesse osservando. Poi, l'evidenza lo colpì come una palla di cannone nello stomaco.
Con orrore, Sexton alzò di scatto la testa verso il pubblico. Molti ridevano e stavano già telefonando in redazione per riferire la storia.
Sexton sentì un colpetto sulla spalla.
Si voltò, intontito.
Era Rachel. «Abbiamo cercato di fermarti» disse. «Ti abbiamo offerto ogni possibilità.» Vicino a lei, c'era una donna.
Sexton, tremante, rivolse lo sguardo verso di lei. Era la cronista in cappotto di cachemire e basco di mohair, quella che aveva fatto cadere le buste. Nel vederla in faccia, sentì ghiacciare il sangue nelle vene.
Gabrielle sembrò trafiggerlo con i suoi occhi scuri, poi sbottonò il cappotto per mostrargli un fascio di buste bianche accuratamente infilate sotto il braccio.
132
Lo Studio Ovale era buio, illuminato solo dal fioco bagliore della lampada d'ottone sulla scrivania del presidente Herney. Davanti a lui, Gabrielle Ashe, a testa alta.
Fuori dalla finestra, il crepuscolo stava scendendo sul prato di ponente.
«Ho sentito che ci lascerà» disse Herney, in tono accorato.
Gabrielle annuì. Benché il presidente le avesse generosamente offerto ospitalità alla Casa Bianca, lontano dalla stampa, Gabrielle aveva preferito non rifugiarsi proprio nell'occhio del ciclone, in attesa di tempi migliori. Voleva andare il più lontano possibile, almeno per un po'.
Herney la scrutò con ammirazione. «Gabrielle, il suo gesto, stamattina…» Si interruppe, come se non trovasse le parole. I suoi occhi erano diretti e limpidi, completamente diversi dai due profondi ed enigmatici specchi d'acqua che l'avevano una volta attratta verso Sedgewick Sexton.
Eppure, perfino contro lo sfondo di quella sede del potere, Gabrielle notò nel suo sguardo una genuina gentilezza, un'onestà e una dignità che non avrebbe dimenticato. «L'ho fatto anche per me stessa» disse infine.
Herney annuì. «In ogni caso, le devo i miei ringraziamenti.» Si alzò, facendole cenno di seguirla nel corridoio. «Veramente avrei voluto che rimanesse per poterle offrire un posto nella divisione Bilancio e programmazione.»
Gabrielle lo guardò dubbiosa. «Stop alla spesa, cominciamo la ripresa?»
Herney ridacchiò. «Qualcosa del genere.»
«Presidente, sappiamo tutti e due che, al momento, io costituirei più che altro un intralcio.»
Herney alzò le spalle. «Lasci passare qualche mese e tutto sarà dimenticato. Tanti grandi uomini, e grandi donne, hanno sofferto momenti difficili sulla via della gloria.» Le strizzò l'occhio. «Alcuni sono diventati addirittura presidenti degli Stati Uniti.»
Gabrielle sapeva che aveva ragione. Disoccupata solo da poche ore, quel giorno aveva già respinto due offerte di lavoro: una di Yolanda Cole della ABC, un'altra della casa editrice St Martin's Press, che le aveva offerto uno scandaloso anticipo per scrivere un'autobiografia molto esplicita. "No grazie."