Assetato e affamato, dolorante e avvilito, Falk vide il suo viaggio senza meta nella Foresta Orientale, senza più speranze di incontri amichevoli lungo la via che spezzassero la dura monotonia della vita selvaggia. Non doveva più cercare strade ma evitare tutte le strade, tenersi nascosto agli uomini e lontano dai luoghi in cui essi vivevano, come faceva qualunque bestia selvatica. A parte un ruscello presso cui si fermò a bere e la razione d'emergenza che estrasse dal sacco, una sola cosa lo rallegrò un poco, e fu il pensiero che, dopo tutto, aveva sopportato le avversità tutto da solo, non aveva ceduto. Era riuscito a tener testa al cinghiale moralista e agli uomini brutali, e se l'era cavata. Questo lo rincuorò, perché si conosceva ancora tanto poco che ogni sua azione era anche una scoperta di se stesso, come le azioni di un bambino, e sapendo che tante cose gli mancavano, fu lieto di constatare che, almeno, non era senza coraggio.
Dopo aver bevuto e mangiato, e bevuto di nuovo, proseguì alla luce incostante della luna, sufficiente per i suoi occhi, però, finché non ebbe messo un miglio buono di terreno accidentato tra sé e la Casa della Paura (con questo nome pensava a quel luogo). Poi, esausto, si adagiò per dormire ai margini di un piccolo slargo, senza accendere fuoco né costruirsi riparo, disteso con gli occhi fissi al cielo invernale sbiancato dalla luna. Nulla interrompeva il silenzio; solo ogni tanto si udiva il grido sommesso di un gufo in caccia. E la sua miseria gli parve riposante e benedetta, dopo la costante presenza di piccoli passi in corsa, piccole voci, e nessuna luce, della cantina-prigione della Casa della Paura.
Spingendosi sempre più a ovest, attraverso gli alberi e le nuove giornate, non faceva conto né di queste né di quelli. Il tempo andò avanti; e anche lui andava avanti.
Il libro non era l'unica cosa che aveva perduto; gli avevano portato via la borraccia d'argento di Metock, e una piccola scatola, anch'essa di argento, che conteneva unguento disinfettante. Il libro potevano averlo preso solo perché lo desideravano pazzamente, o perché l'avevano scambiato per una specie di codice o di mistero. Ci fu un periodo in cui quella perdita gli pesò in modo irragionevole, perché gli pareva di aver perduto l'unico serio legame che gli era rimasto con la gente che amava e in cui aveva fiducia e una volta, seduto accanto al fuoco, si disse che il giorno dopo sarebbe tornato indietro, avrebbe ritrovato la Casa della Paura e ripreso il libro. Ma il giorno dopo proseguì. Andare a ovest era facile, con il sole e la bussola per guidarsi, ma non gli sarebbe mai riuscito di ritrovare un posto ben preciso nell'immensità di quelle colline senza fine e tra le valli della Foresta. Non la valle nascosta di Argerd; e non la Radura dove adesso Parth stava forse tessendo al sole invernale. Era tutto dietro di lui, perduto.
Forse non era un male aver perduto il libro. Che senso poteva avere per lui, qui, il sagace ed esperto misticismo di una civiltà molto antica, quella voce tranquilla che arrivava a lui dal folto di guerre e disastri già dimenticati? L'umanità era sopravvissuta al disastro; e lui si era lasciato alle spalle l'umanità. Era troppo lontano, troppo solo. Ora viveva interamente di caccia; questo rallentava il ritmo della sua avanzata. Anche quando la selvaggina non ha imparato a temere le armi ed è molto abbondante, la caccia non è un'attività che consente di agire in fretta e furia. Bisogna pulire e cucinare la preda, spolpare e succhiare le ossa accanto al fuoco, restare un po' a pancia piena e sonnolenti nel freddo invernale; e costruire un riparo di rami e corteccia contro la pioggia; e dormire; e il giorno dopo andare avanti. Non lo avrebbe letto, il libro; stava smettendo, veramente, di pensare. Cacciava e mangiava, camminava e dormiva, silenzioso nella foresta silenziosa, un'ombra grigia che si spostava lentamente verso ovest nel freddo della boscaglia.
Il tempo si era fatto sempre più micidiale, il terreno sempre più indurito dal ghiaccio. Spesso coraggiosi gatti selvatici, splendide piccole creature dalla pelliccia a macchie o a righe, aspettavano ai bordi del cerchio di luce del fuoco, per avere i resti del suo pasto e si facevano avanti, con sorniona e timida fierezza, per prendere gli ossi che egli lanciava loro; i roditori di cui si cibavano si erano fatti rari, quasi tutti in letargo. Nessun animale dopo la Casa della Paura gli aveva più parlato, in parole o per telepatia. Gli animali delle pianure boscose e gelate che ora stava attraversando non si erano mai temprati della presenza dell'uomo, non l'avevano mai visto né mai ne avevano colto l'odore, forse. E più si allontanava, più avvertiva quanto gli fosse estranea quella casa nascosta nella valle pacifica, con fondamenta dove vivevano topi che squittivano in lingua umana, abitata da gente che possedeva molta scienza, la droga della verità, e un'ignoranza barbarica. Laggiù c'era stato il Nemico.
Che il Nemico fosse stato qui era proprio improbabile. Nessuno c'era mai stato. Nessuno ci sarebbe mai. Le ghiandaie gridavano sui rami grigi. Foglie scure coperte di brina si spezzavano sotto i piedi, le foglie di centinaia di autunni. Un grande cervo fissò Falk dall'altra riva di un fiumicello; immobile, imperativo, metteva in dubbio il suo diritto a stare in quel luogo.
— Non voglio spararti. Ho preso due gallinelle questa mattina — disse Falk.
Il cervo lo fissava, con la signorile padronanza di sé del senza-parola, e lentamente si allontanò. Egli pensò che alla fine poteva dimenticare ancora il linguaggio, e diventare di nuovo ciò che era prima, muto, selvatico, inumano. Si era spinto troppo lontano dagli uomini ed era venuto dove regnano creature mute, e gli uomini non avevano mai vissuto.
In riva al fiume inciampò in una pietra, e steso a quattro zampe lesse lettere consumate dalle stagioni, incise su una pietra mezzo sepolta in terra: CK O.
Gli uomini erano stati anche lì, ci avevano vissuto. Sotto i suoi piedi, sotto il terreno ghiacciato, ondulato, sotto quella foresta di arbusti senza foglie e alberi nudi, sotto le radici, c'era una città.
Era arrivato in città un millennio o due troppo tardi.
3
I giorni, di cui Falk non teneva più il conto, si erano fatti molto brevi, forse era già venuta Fine d'Anno, il solstizio d'inverno. Il tempo non era tanto cattivo come forse era stato quando la città si innalzava fuori del terreno — ora si era in un ciclo climatico più mite — tuttavia rimaneva quasi sempre rigido e grigio. Spesso cadeva neve, non tanto fitta da render difficile il cammino, ma abbastanza perché Falk capisse che senza gli abiti di stoffa invernale e il sacco a pelo preso dalla Casa di Zove, il freddo gli avrebbe fatto soffrire qualcosa di più di un continuo disagio. Il vento settentrionale soffiava tanto rigido e incessante che egli rischiava continuamente di venir deviato verso sud; quando c'era da scegliere, sceglieva la via a sudovest, piuttosto che affrontare il vento in pieno.
Nel pomeriggio scuro e tetro di un giorno di nevischio e pioggia, si trovò a camminare a fatica nella valle di un fiume che andava verso sud, lottando in un fitto sottobosco di rovi su un terreno irto di sassi e fangoso. Tutto a un tratto la boscaglia si aprì ed egli fu costretto a fermarsi di colpo. Davanti a lui c'era un grande fiume, uniformemente increspato dai piccoli spruzzi delle gocce di pioggia. Restò attonito dall'ampiezza, dalla maestà di quel grande movimento silenzioso verso ovest dell'acqua scura sotto il cielo basso. Dapprima pensò che doveva essere il Fiume Interno, uno dei pochi segni caratteristici della geografia continentale, conosciuto in modo leggendario anche nelle Case della Foresta Orientale; ma si diceva fluisse verso sud, segnando il confine occidentale del Regno degli Alberi. Certamente allora, questo era un affluente del Fiume Interno. Lo seguì, per quel motivo, e per evitare le colline più alte. Aveva sempre acqua e buona caccia; inoltre era piacevole camminare qualche volta su una sponda sabbiosa, sotto il cielo aperto, senza l'ombra interminabile dei rami. Così, seguendo il fiume, andò verso sudovest, attraverso una terra ondulata e boscosa, tutta fredda e silente, senza colori, rinchiusa nell'inverno.