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— Vieni con noi — gridò un uomo, e questa volta, riconoscendo la lingua, Falk comprese. Era il linguaggio della vecchia Lega, il Galaktika. Come tutta la gente della foresta, Falk lo aveva imparato da nastri e libri, perché i documenti che ancora restavano della Grande Era usavano quella lingua ufficiale, comune a uomini di lingue differenti. Il dialetto della Foresta discendeva dal Galaktika, ma dopo più di mille anni era diventato decisamente differente, e del resto variava un poco da una Casa all'altra. Una volta alla Casa di Zove erano arrivati viaggiatori provenienti dalla costa del Mare Orientale, e parlavano un dialetto tanto diverso che furono costretti a rivolgersi ai padroni di casa in Galaktika, e quella era stata l'unica volta che Falk lo aveva sentito usare come lingua viva; altrimenti era solo una voce che usciva da un libro sonoro, o il mormorio del maestro — notturno, che gli restava nelle orecchie al risveglio, nell'oscurità di un'alba invernale. Assurdo e arcaico, ora quel linguaggio risuonava nella voce chiara del timoniere. — Vieni con noi, andiamo in città!

— Quale città?

— La nostra — gridò l'uomo, e rise.

— La città che accoglie a braccia aperte i viaggiatori — gridò un altro, con la voce tenorile che aveva brillato con toni dolcissimi nella canzone precedente; e aggiunse ancora: — Chi non viene con intenzione di far male non riceve alcun male tra noi. — E una donna gridò, come se sorridesse parlando: — Esci dalla foresta, viaggiatore, e ascolta la nostra musica per una notte.

Lo chiamavano con un nome che significava viaggiatore, ma anche messaggero.

— Chi siete voi? — chiese Falk.

Il vento soffiava e il grande fiume scorreva. La barca e la navicella volante erano sospese immobili nella corrente dell'aria e dell'acqua, unite e separate, come in un incantesimo.

— Siamo uomini.

Con questa risposta il fascino svanì, soffiato via come un suono dolce o un profumo nel vento dell'est. Falk risentì l'impressione di un uccello ferito che si dibatteva nelle sue mani gridando paròle umane con una penetrante voce inumana: ora, come allora, fu attraversato da un senso di gelo, e senza esitazione, senza nemmeno pensare, toccò l'arco d'argento e spinse avanti la slitta a tutta velocità.

Dalla barca non gli arrivò nessun suono, sebbene ora il vento soffiasse favorevole; dopo pochi attimi l'esitazione si impadronì nuovamente di lui, rallentò la slitta e guardò indietro. La barca era sparita. Non c'era nulla sull'ampia superficie dell'acqua, e la prima curva era molto lontana.

Dopo questo episodio, Falk smise di giocare a far salti sull'acqua, ma viaggiò con la massima accortezza e in silenzio; quella notte non accese nemmeno il fuoco, e stentò a prender sonno. Tuttavia, qualcosa di quel fascino gli restò. Le voci dolci avevano parlato di una città, elonaae nella vecchia lingua, e mentre puntava a sud, stando a mezz'aria, e in mezzo alla foresta, Falk pronunciò sospirando quella parola. Elonaae, il Luogo dell'Uomo: miriadi di uomini riuniti insieme, non un'unica casa, ma migliaia di case, grandi costruzioni per abitare, torri, mura, finestre, strade e i luoghi aperti dove le strade si incontrano, i magazzini commerciali di cui parlavano i libri, dove tutte le creazioni ingegnose delle mani degli uomini venivano costruite e vendute, i palazzi del governo dove i potenti si riunivano per discutere insieme delle grandi opere che stavano realizzando, le rampe di lancio, da cui navi schizzavano via attraverso gli anni, dirette verso soli alieni: la Terra aveva davvero partorito posti tanto meravigliosi come i Luoghi dell'Uomo?

Adesso era tutto finito. Restava soltanto Es Toch, il Luogo della Menzogna. Non esistevano città nella Foresta Orientale. Nessuna torre di pietra e acciaio e cristallo, affollata di anime, si innalzava tra gli acquitrini e i boschi di ontani, le tane dei conigli, le piste dei cervi, le autostrade perdute, le pietre rotte e sepolte.

Tuttavia la visione di una città rimase nella memoria di Falk, molto simile a un ricordo di qualcosa che egli un tempo conosceva. Da questo fatto comprese la potenza del richiamo, dell'inganno a cui era riuscito a sottrarsi indenne, e si domandò se avrebbe trovato molti altri di questi inganni e di queste esche, mentre marciava diritto a ovest, verso la loro fonte.

I giorni e l'acqua del fiume continuavano a scorrere, e lui insieme a loro, finché, in un pomeriggio ancora grigio, il mondo si aprì, lentamente, divenne sempre più vasto, un'ampiezza terribile, un'immensa pianura di acque fangose sotto un cielo enorme: la confluenza del Fiume della Foresta con il Fiume Interno. Non c'era da stupirsi che avessero sentito parlare del Fiume Interno anche nella profonda ignoranza del loro isolamento nelle Case, centinaia di miglia più a est; era una cosa tanto enorme che neppure gli Shing potevano nasconderla. Una vasta e brillante distesa di acqua giallo-grigia scorreva sopra le ultime cime e isolotti della Foresta, allagata dalla piena mentre molto lontano verso ovest appariva una sponda collinosa. Falk volò come uno degli aironi blu del fiume, a pelo d'acqua, sopra il punto dove le due correnti si riunivano. Atterrò sulla sponda occidentale e fu, per la prima volta in tutta la sua memoria, completamente fuori dalla Foresta.

A nord, ovest e sud si stendeva una pianura ondulata, con gruppi isolati di alberi, sterpaglia e boschetti nelle zone più basse, ma era un paese dove la vista spaziava aperta, un paese aperto, molto aperto. Con una certa delusione Falk guardò verso ovest, sforzando gli occhi per vedere le montagne. Quella terra aperta, la Prateria, si diceva che fosse larga mille miglia, forse; ma come stessero realmente le cose, nessuno sapeva dirlo, nella Casa di Zove.

Non vide montagne, ma quella sera vide il limite del mondo, là dove esso si incontra con le stelle. Non aveva mai visto un orizzonte. Tutta la sua memoria era circondata da confini di foglie e rami. Invece lì fuori non c'era nessun ostacolo tra lui e le stelle, che brillavano a partire dal limite della Terra, e poi su, in un grande arco, una cattedrale fatta di nero e modellata con il fuoco. E giù, sotto i suoi piedi, la volta proseguiva, si chiudeva in un cerchio; ora dopo ora, il movimento dell'orizzonte rivelava le nuove forme di fuoco che prima si trovavano nascoste a est, dietro il limite della Terra. Passò metà di quella lunga notte di inverno, restando sveglio a guardare, ed era sveglio di nuovo quando il mobile limite orientale del mondo passò attraverso il sole, e la luce del giorno irruppe dagli spazi extraterrestri alle pianure.

Quel giorno viaggiò esattamente nella direzione dell'ovest segnata dalla bussola e così fece anche il giorno dopo, e il giorno dopo ancora. Non più legato alle serpentine del fiume, procedeva diritto e rapido. Guidare la slitta non era più una occupazione tanto banale come lo era stato sull'acqua; il terreno non era completamente piano, e ogni volta che incontrava una contropendenza la slitta si impennava e andava a sbattere contro terra, se non si restava sempre all'erta ai comandi. Gli piacevano gli spazi aperti del cielo e della prateria, e la solitudine lo rendeva signore incontrastato di un dominio immenso. Il tempo era favorevole, un sole mite annunciava la fine dell'inverno. Ripensando alla foresta, sentiva di essere uscito da un'oscurità soffocante e segreta, e arrivato alla luce, alla libertà, come se le praterie fossero una enorme Radura. Vacche selvatiche dal pelo rosso, in mandrie di decine di migliaia di capi, passavano nelle pianure, oscurandole come ombre di nuvole. Il terreno era sempre di colore scuro, ma in qualche luogo velato appena di verde, nei punti in cui i primi, minuscoli bocci delle erbe più resistenti (quelle a doppia foglia) si stavano aprendo; e sopra e sotto il livello del terreno c'era un costante rincorrersi e scavare tane di piccoli animali: conigli, tassi, leprotti, topi, gatti selvatici, talpe, arcturies dagli occhi striati, antilopi, yappers gialli: flagelli e beniamini di civiltà passate. Il cielo enorme vibrava per il battere di diecimila ali. Al crepuscolo, nelle vicinanze dei fiumi, sì posavano stormi di gru bianche, tra le canne e le piante spoglie del cotone, specchiando nelle acque le lunghe gambe e le lunghe ali tese.