Fred Hoyle
John Elliot
A come Andromeda
1
Arrivo
La luce filtrava appena dal cielo mentre risalivano Bouldershaw Fell. Judy sedeva vicino al professore sul sedile posteriore dell’auto che percorreva la strada da Bouldershaw centro all’aperta brughiera; lanciò un’occhiata speranzosa fuori dal finestrino ma solo quando furono quasi in cima alla collina vide il radiotelescopio.
Si levò all’improvviso di fronte a loro: tre massicci piloni che si univano in cima a formare un arco triangolare, stagliato preciso contro il cielo declinante. Tra i sostegni, sul terreno, si incurvava una conca di cemento delle dimensioni di una arena, e sopra, sospesa alla sommità dell’arco, una conca metallica più piccola, rivolta in basso, puntava una lunga antenna verso il terreno. Le dimensioni della struttura non davano subito all’occhio; apparivano soltanto sproporzionate rispetto al paesaggio. Solo quando l’auto vi giunse e vi si fermò sotto, Judy cominciò a rendersi conto di quanto grande fosse. Era completamente diversa da tutto ciò che aveva mai visto: completamente e decisamente a sé, come una scultura.
Tuttavia, nonostante la sua singolarità, non c’era nulla di particolarmente minaccioso in quella struttura alta, incombente, che predicesse loro lo straordinario e disastroso futuro che ne doveva nascere.
Scesi dall’auto si fermarono un istante, nell’aria mite e dolce che riempiva loro testa e polmoni, e alzarono lo sguardo ai tre grossi piloni, al riflettore metallico che scintillava alto sopra di loro e al pallido cielo sullo sfondo. Tutt’intorno, sulla cima spoglia della collina, erano sparse alcune basse costruzioni e degli apparati minori di antenne, circondati da un reticolato metallico. Udivano solo il fischio del vento tra i piloni e il richiamo dei chiurli e potevano quasi sentire il grande orecchio di cemento e metallo, lì accanto, teso ad ascoltare le stelle.
Il professore si diresse per primo verso l’edificio principale: una costruzione bassa dalla facciata di pietra, con l’entrata non ancora finita e il sentiero d’accesso tracciato da poco. Alcuni uomini stavano fissando i cardini del cancello e dipingendo i cartelli indicatori: tutto aveva un’aria molto nuova e recente sullo sfondo oscuro e dolce della collina.
«Abbiamo tutto l’armamentario di ferri chirurgici necessario,» spiegò il professore con un piccolo gesto della mano. «Qui dentro c’è il centro di controllo.»
Era un uomo sulla sessantina, piccolo, preciso e calmo come un medico di famiglia.
«Mica male il suo rampollo,» commentò Judy.
«È il rampollo più importante che abbia mai aiutato a venire al mondo. Un parto che è durato dieci anni.»
Le rivolse una strizzatina d’occhio e trotterellò con le sue scarpette nere su per i gradini che portavano all’edificio di controllo.
Il vestibolo aveva un aspetto provvisorio ma al tempo stesso familiare. L’inevitabile soffitto a pannelli bucherellati, l’inevitabile pavimento di graniglia, muri di mattoni imbiancati, illuminazione al neon. Un telefono a muro e un distributore di acqua potabile. Sulle pareti laterali due piccole porte e una porta doppia di fronte all’ingresso. Tutto qui. Un lieve sibilo proveniva dalla doppia porta. Quando il professore l’apri il sibilo si fece più forte. Sembrava un’interferenza in un apparecchio radio.
Mentre superavano la doppia porta uscì un uomo con il grembiule scuro degli addetti alla pulizia. I suoi occhi incontrarono per un momento quelli di Judy, ma quando la ragazza socchiuse la bocca egli distolse lo sguardo.
«Buona sera, Harries,» disse il professore.
La stanza in cui entrarono era la sala di controllo, il centro dell’osservatorio. A un’estremità una finestra panoramica offriva la vista della gigantesca struttura all’esterno: di fronte alla finestra c’era un massiccio banco di metallo, simile alla tastiera di un organo, fornito di pannelli, di pulsanti, luci e interruttori. Parecchi giovani stavano lavorando al banco, consultando ogni tanto i due calcolatori che, chiusi in alte custodie metalliche, si levavano ai due lati del banco. Una parete era coperta da ingrandimenti di fotografie di stelle, prese col telescopio; l’altra era per due terzi una divisione in vetro dietro alla quale, in una stanza interna, si vedevano altri giovani lavorare in squadra.
«La cerimonia dell’inaugurazione si svolgerà qui,» annunciò Reinhart.
«Dov’è che il ministro romperà la bottiglia di champagne o taglierà il nastro o farà quel che dovrà fare?»
«Al banco. Schiaccerà un bottone al banco di controllo per metterlo in azione.»
«Non funziona ancora?»
«Non ancora. Stiamo facendo delle prove di collaudo.»
Judy si fermò sulla soglia a osservare attentamente. Era il tipo della donna giovane e attraente che vien spesso definita bella più che graziosa: una pelle fresca, uno sguardo vivo e intelligente, un portamento molto deciso, un tantino goffo. Sarebbe potuta essere un’infermiera o un’ufficialessa dei servizi sussidiari o semplicemente una ragazza uscita da una scuola raffinata. Aveva mani piuttosto grandi e occhi di un azzurro intenso. Sottobraccio teneva un fascio di fogli ed opuscoli che estrasse per consultarli, come se potessero darle una spiegazione di ciò che vedeva.
«È il più grande radiotelescopio di… be’, del mondo.» Il professore si guardò attorno, sorridendo felice. «Non è grande come un interferometro, naturalmente, ma questo possiamo dirigerlo. Si può spostare il fuoco con il piccolo riflettore in cima, e in tal modo seguire una fonte attraverso il cielo.»
«Da questi mi sembrava d’aver capito,» Judy agitò i fogli, «che ci sono degli altri radiotelescopi che funzionano nello stesso modo.»
«Vero. Nel sessanta, quando abbiamo cominciato a costruire questo, ce n’erano già. Ma non hanno la sensibilità del nostro.»
«Perché questo è più grande?»
«Non solo. Anche perché abbiamo apparecchi ricevitori migliori. Questo ci dovrebbe dare una maggior sensibilità al rumore. È tutto installato qui dentro.»
Accennò con la mano piccola e delicata alla stanza dietro il pannello di vetro.
«Vede, tutto ciò che si raccoglie dalla maggior parte delle fonti astronomiche, radiostelle per esempio, è un segnale elettrico molto debole, ed è mescolato a molti altri rumori provenienti dall’atmosfera, dai gas interstellari, da sa il cielo cosa. Be’, il cielo lo sa di certo.»
Parlava con voce precisa, tranquilla, naturale; come un medico che parlasse di un raffreddore. La sensazione del successo, dell’aspettativa, era celata.
«Potete sentire delle fonti che gli altri non riescono a captare?» chiese Judy.
«Lo spero. È quel che vogliamo. Ma non mi chieda come. C’è un gruppo che se n’è occupato.» Abbassò modestamente lo sguardo sui propri piedi. «Il dottor Fleming e il dottor Bridger.»
«Bridger?» Judy alzò gli occhi di colpo.
«In realtà il cervello è Fleming. John Fleming.» Lo chiamò riguardosamente. «John!»
Uno dei giovani si staccò dal gruppo attorno al banco di controllo e si avviò verso di loro.
Gettò un «Salve!» al professore, ignorando Judy.
«Se hai un momento, John. Il dottor Fleming, Miss Adamson.»
Il giovane scoccò un’occhiata a Judy, poi si rivolse al banco di controllo. «Abbassate ’sto maledetto baccano!»
«Cos’è?» domandò Judy. I disturbi atmosferici si ridussero a un debole sibilo. Il giovane alzò le spalle.
«Sibili interstellari, per lo più. L’universo è pieno di materia carica di energia elettrica. Quello che noi riceviamo è una emissione elettrica di queste cariche, che noi avvertiamo come rumore.»
«Il sottofondo musicale dell’universo,» aggiunse Reinhart.
«Se lo deve ricordare, professore,» disse il giovane con una punta di amichevole presa in giro. «Se lo ricordi per le dichiarazioni stampa di Jacko.»