Judy si diresse alla sala del calcolatore e osservò le macchine che ticchettavano e vibravano. Ogni macchina aveva il proprio tecnico, uomini e donne dall’aspetto assolutamente neutro, vestiti di camici identici. Al centro un lungo tavolo, sul quale i calcoli che uscivano dal calcolatore venivano ammonticchiati in pile di schede perforate e rotoli di nastro registrato e lunghe strisce di carta provenienti dalle stampatrici. La quantità di cifre contemplata dal calcolatore era incredibile, e pareva assolutamente estraneo a qualsiasi elemento umano: era un insieme di macchinari che parlava un suo gergo privato.
Judy aveva imparato un po’ di quanto stava facendo la squadra. Il messaggio di Andromeda era continuato per parecchie settimane, senza ripetersi, poi era ritornato al punto di partenza e aveva ricominciato tutto una seconda volta. Questo li aveva messi in grado di riempire la maggior parte delle lacune della prima trasmissione: poiché la Terra girava, si poteva ricevere il messaggio solo nelle ore in cui l’emisfero occidentale si trovava di fronte alla costellazione di Andromeda, e per dodici ore su ventiquattro la sorgente si trovava sotto la linea dell’orizzonte. Quando il messaggio ricominciò per la seconda volta, la rotazione della Terra era in un diverso rapporto rispetto alla costellazione di Andromeda, così che si poteva ricevere parte dei passaggi che erano andati perduti; e alla fine della terza ripetizione lo ebbero tutto. Il personale di Bouldershaw Fell continuava a intercettare, ma non si aveva alcun mutamento. Quale che fosse la sorgente aveva una cosa ben precisa da dire e insisteva nel dirla.
Nessuno degli iniziati ormai dubitava più che si trattasse di un messaggio; persino il reparto del commodoro Watling faceva riferimento a esso come alla «trasmissione di Andromeda,» quasi che la sorgente e l’identità del messaggio fossero fuori discussione. Il lavoro su questo messaggio veniva catalogato come progetto A. Era un messaggio molto lungo e i punti e le linee, una volta tradotti in linguaggio matematico comprensibile, ammontavano a parecchi milioni di lunghi gruppi di cifre. Senza i calcolatori il passaggio a forma normale avrebbe richiesto una vita: e anche con questi richiedeva parecchi mesi. A ogni macchina era stato insegnato cosa fare delle informazioni che le venivano date: e questo, aveva imparato Judy, si chiamava programmazione. Una programmazione consisteva in un insieme di calcoli introdotti su schede perforate, che facevano fare alla macchina il lavoro richiesto. Vi veniva poi introdotto il gruppo di cifre che dovevano essere analizzate, i dati, cioè, e la macchina nel giro di pochi secondi dava la risposta. Questo processo doveva venire ripetuto per l’esame di ogni nuovo gruppo di cifre. Fortunatamente i calcolatori più piccoli potevano venire usati per preparare il materiale per quelli più grandi, e tutte le macchine possedevano, oltre all’unità di ingresso, di controllo, di calcolo e di uscita, una notevole memoria, cosicché le nuove risposte potevano venire basate sull’esperienza di quelle precedenti.
Era Reinhart, gentile, tollerante, saggio e pieno di tatto, che aveva spiegato la maggior parte di ciò a Judy. Dopo l’episodio di Bouldershaw, accettava più cordialmente la sua presenza, e aveva cominciato a dimostrarle una certa simpatia, facendole capire che gli spiaceva la situazione in cui lei si trovava. Sebbene fosse preso fino al collo dai fragili rapporti tra i reparti che permettevano loro di portare avanti il lavoro, in quel periodo le sue spiccate doti di capo erano particolarmente in evidenza. In qualche modo riuscì a tenere Fleming nei giusti binari, e a tenere a bada le autorità, e, ciò nonostante, aveva ancora il tempo di occuparsi delle idee e dei problemi di ciascuno; nel frattempo restava discretamente in secondo piano, passando di problema in problema come un angelo custode silenzioso, efficiente e molto penetrante.
Era solito prendere Judy per un braccio e parlarle con molta semplicità di quel che stava facendo, come se avesse moltissimo tempo a disposizione e una preparazione eccezionale. Ma per farle capire il calcolatore giunse a un punto al quale dovette rivolgersi a Fleming, e Fleming proseguì da solo. I calcolatori, comprese Judy, erano il primo e grande amore di Fleming, ed egli comunicava con loro per mezzo di una magica facoltà di intuizione.
Non c’era nulla di strano in lui; solo possedeva una facilità sovrumana per il loro linguaggio. Diguazzava nella matematica in base due come un pesce nel mare e operava dei brevi tagli logici che risparmiavano a Bridger e a Christine le parecchie ore necessarie al controllo; ma non lo colsero mai in errore.
Un giorno, poco prima di quando Bridger sarebbe dovuto partire, Reinhart li sequestrò per una seduta più lunga del solito, alla fine della quale andò dritto al Ministero. Il giorno dopo il professore e Fleming tornarono insieme a Whitehall.
«Ci siamo tutti?»
La voce equina di Osborne nitriva per tutta la lunghezza della sala delle conferenze. Attorno alla lunga tavola stavano circa trenta persone, a gruppi, chiacchierando. Sulla lucida superficie di mogano erano disposti, a intervalli, taccuini, blocchi di fogli, e matite; e al centro del tavolo erano preparati dei vassoi d’argento carichi di brocche d’acqua e bicchieri. A un capo del tavolo c’era un blocco più grande, dagli angoli ricoperti di cuoio bulinato, per l’Uomo Importante.
Vandenberg e Watling erano in un gruppo, Fleming e Reinhart in un altro, e un rispettoso circolo di funzionari statali in abito grigio scuro circondava un’abbagliante matrona dall’abito a fiori. Osborne, con aria esperta, li teneva d’occhio, poi fece cenno al più giovane degli uomini in grigio, che stava in piedi dietro alla porta. Il giovane sparì nel corridoio e Osborne prese posto a capotavola. «Ehm,» nitrì. Gli altri occuparono i propri posti e Vandenberg, su invito di Osborne, sedette alla destra del posto principale. Fleming, accompagnato da Reinhart, sedette con ostentazione all’estremità opposta. Ci fu un istante di silenzio, poi la porta si spalancò e James Robert Ratcliff, ministro della Scienza, entrò. Fece con la mano un cenno affabile a uno o due giovani che accennavano ad alzarsi. «Comodi, comodi,» e prese posto dietro la cartelletta lavorata. Aveva una nobile testa dai capelli grigi, forse eccessivamente elegante, e viso e mani dal colorito sano. Le dita erano molto forti, quadrate, capaci. Sorrise cordialmente all’assemblea.
«Buon giorno, signore e signori; spero di non essere in ritardo.»
I più nervosi scossero il capo, mormorando di no.
«Come sta, generale?» Ratcliff si rivolse a Vandenberg con un gesto che ricordava vagamente Cesare.
«Vecchio e malato,» rispose Vandenberg che non era né una cosa né l’altra.
Osborne tossicchiò. «Vuole che faccia qualche presentazione?»
«Grazie. Vedo delle facce nuove.»
Osborne conosceva il nome di tutti e il ministro elargiva a ciascuno un grazioso cenno del capo o un gesto della mano. Si scoprì che l’infiorata primadonna era una certa Mrs. Tate-Allen, rappresentante della commissione finanziatrice. Quando giunsero a Fleming la reazione del ministro cambiò.
«Ah… Fleming, non più indiscrezioni, spero.»
Fleming gli lanciò una torva occhiata.
«Ho tenuto la bocca chiusa, se è questo che vuol dire.»
«Proprio questo.» Ratcliff ebbe un sorriso affascinante e passò oltre, a Watling.
«Cercheremo di non sprecare troppo tempo.» Sollevò la sua bella testa da antico romano e guardò il professor Reinhart all’altro capo del tavolo.
«Ha qualche bella notizia per noi, professore?»
Reinhart tossicchiò diffidente, dietro la sottile mano esangue.
«Il qui presente dottor Fleming ha fatto un’analisi.»
«Mi scusi.» Mrs. Tate-Allen sorrise radiosa. «Ma non credo che sia stata chiarita esattamente la posizione del qui presente Mr. Newby.»
Mr. Newby era un ometto piccolo, esile, che pareva abituato alle umiliazioni.
«Oh, giusto, forse dovreste colmare le lacune, Osborne.»