«Possiamo mettere a sua disposizione i calcolatori delle università,» disse, come se parlasse di questioni di routine quotidiana. La pazienza di Fleming a un certo punto toccò il limite massimo.
«Crede davvero che di questi tempi le università abbiano le attrezzature migliori?» Puntò un dito verso Vandenberg. «Chieda ai suoi colleghi dell’esercito dove sono in questo paese le uniche macchine calcolatrici decenti.»
Ci fu un attimo di gelido silenzio. Tutti fissavano il generale americano.
«Avrei avuto bisogno di un preavviso per rispondere a questa domanda.»
«Non ne ha bisogno, perché sarò io a dirlo. Al centro missilistico di Thorness.»
«È impegnato nei lavori per la difesa.»
«Certo,» commentò Fleming sprezzante.
Vandenberg non rispose. Quel giovane rappresentava un problema di pertinenza del ministro. L’assemblea attendeva, mentre Ratcliff tamburellava con le dita sulla cartella di cuoio bulinato e Osborne, senza molte speranze, calcolava il punteggio. Il suo capo era certo impressionato, ma non convinto. Fleming, come tutti gli uomini sinceri, non era un buon avvocato. Aveva avuto le sue possibilità, e più o meno le aveva sprecate tutte. Se il ministro non ne avesse fatto nulla, tutta la faccenda si sarebbe risolta in uno sfoggio di teoria accademica. Se avesse deciso d’agire, avrebbe dovuto negoziare con l’esercito, avrebbe dovuto convincere non solo il ministro della Difesa, ma anche la Commissione alleata di Vandenberg, del fatto che il giuoco valeva la candela. Ratcliff prendeva tempo. Gli piaceva che la gente dovesse aspettarlo.
«Potremmo farne richiesta,» disse infine. «Sarebbe una faccenda che riguarda il Consiglio.»
Per un po’ di tempo, dopo la riunione, la squadra non ebbe nulla da fare. Prudentemente, Reinhart e Osborne portavano avanti passo passo i negoziati, ma Fleming non poteva proseguire in tal modo. Bridger sbrigava il lavoro che gli restava. Christine sedeva tranquilla nel suo ufficio a controllare e ricontrollare il lavoro già svolto. Ma Fleming si allontanò da tutto e prese con sé Judy.
«Non serve a niente stare a gingillarsi mentre quelli prendono una decisione,» e se la trascinava dietro perché lo aiutasse a distrarsi. Non che le facesse la corte. Solo gli piaceva averla con sé ed era una compagnia affettuosa e decisamente piacevole. Il motivo principale del suo scontento, andava scoprendo Judy, era che non poteva sopportare la pomposità e gli artifici. Quando affrontavano l’argomento del suo lavoro, talvolta era amaro e violento, ma quando si lasciava il lavoro alle spalle questi argomenti diventavano soltanto un bersaglio per il suo particolare umorismo, mordente e pepato.
«L’Inghilterra sta lentamente scivolando verso occidente,» disse una volta che lei lo interrogò sulla situazione generale, e lo disse con un sogghigno. Quando la ragazza cercò di giustificarsi per il suo scatto a Bouldershaw Fell, si limitò a darle una pacca sul didietro.
«Perdona e dimentica, questo è il mio motto,» disse, e le offrì da bere. Per fargli piacere lei sopportava un mucchio di cose: lui amava la musica moderna, che lei non capiva; amava correre in macchina, cosa che la spaventava; e cosa che la spaventava ancor più, gli piaceva andare a vedere i film western. Era terribilmente stanco, eppure era senza pace. Passavano da un cinema a un concerto, da un concerto a una lunga corsa in auto, dall’auto a una potente bevuta e, alla fine, lui era sfinito ma almeno pareva felice, anche se lei non lo era. Capiva che stava vivendo sotto una maschera.
Andavano di rado nel piccolo ufficio dell’istituto, e quando erano là Fleming corteggiava Christine. Certo Judy non poteva fargliene una colpa. Per altre cose non si occupava affatto di lei: era una ragazza incredibilmente carina e la cosa finiva lì. Lei, come confidò a Bridger, era «innamorata del suo cervello.» Ma pareva che non gradisse particolarmente essere brancicata e pizzicata. Continuava, tranquilla, a occuparsi del suo lavoro. Però gli faceva qualche domanda a proposito di Thorness.
«C’è mai stato, dottor Fleming?»
«Una volta.»
«Com’è?»
«Distaccato e bellissimo, come lei. E anche potente, inanimato e privo di immaginazione, a differenza di lei.»
Era sottinteso che se fosse stato permesso a Fleming di recarsi lassù, lei l’avrebbe seguito. Watling aveva esaminato i suoi precedenti e li aveva trovati impeccabili. Padre e madre Flemstad erano fuggiti dalla Lituania quando gli eserciti russi l’avevano invasa, e Christine era nata e cresciuta in Inghilterra. I suoi genitori, prima di morire, erano stati naturalizzati inglesi, e Christine era stata sottoposta a ogni possibile controllo.
L’attività di Dennis Bridger pareva assai più interessante. Man mano che si avvicinava il giorno della partenza, riceveva un numero sempre maggiore di interurbane assolutamente inspiegabili, che sembravano preoccuparlo molto sebbene non ne parlasse mai. Un mattino, che era solo nell’ufficio con Judy, sembrava più spaventato del solito. Quando il telefono squillò, le strappò letteralmente il ricevitore di mano. Era chiaro che qualcuno lo aveva chiamato a rapporto: borbottò qualche parola di scusa e uscì dall’ufficio. Judy lo osservava dalla finestra: attraversò il recinto e scese in strada dove lo attendeva un’auto molto grande e lussuosa. Appena si fu avvicinato una portiera si aprì e ne scese un autista immenso, altissimo, che indossava l’uniforme che di solito, nei nostri pensieri, associamo a un coupé de ville del secolo diciannovesimo: la giacca abbottonata per tutta la lunghezza, color senape chiaro, pantaloni stretti al ginocchio e gambali di cuoio lustro.
«Il dottor Bridger?»
Portava occhiali scuri e aveva un accento straniero strascicato e indefinibile. L’auto era lucente e maledettamente bella, come un moderno aereo senz’ali. Due antenne radio, gemelle, si alzavano dalle pinne posteriori, alte più di un uomo, anche di quell’uomo. L’insieme era assurdamente sproporzionato.
L’autista tenne aperta la portiera posteriore dell’auto mentre Bridger entrava. Il sedile era enorme: il pavimento ricoperto di un soffice tappeto, i finestrini tinteggiati in azzurro, e in un angolo era seduto un omino tarchiato dalla testa completamente calva.
L’omino tese una mano inanellata.
«Sono Kaufmann.»
L’autista tornò al suo posto al di là del divisorio di vetro e l’auto si avviò.
«Le spiace se facciamo un giro qui attorno?» Non era possibile sbagliarsi sull’accento di Kaufmann: era tedesco, benestante e duro. «Nascono tanti pettegolezzi se si è visti in giro.»
Qualcosa ronzò dolcemente all’altezza del suo orecchio. Sollevò il ricevitore d’avorio che gli stava di fronte su una forcella. Bridger vedeva l’autista parlare in un microfono accanto al volante.
«Ja.» Kaufmann ascoltò per un secondo, poi si volse a guardare fuori dal finestrino posteriore. «Ja, Egon, capisco. Giri in tondo, allora, va bene? Und Stuttgart… la comunicazione con Stoccarda.»
Rimise il ricevitore al suo posto e si rivolse a Bridger.
«L’autista dice che un tassi ci sta seguendo.» Bridger si guardò attorno nervosamente. Kaufmann rise o, almeno, mise in mostra i denti. «Non c’è motivo di preoccuparsi. Ci sono sempre dei tassi a Londra. Si accorgerà che non andiamo da nessuna parte. Quello che importa è che io abbia la mia comunicazione con Stoccarda.» Estrasse un astuccio d’argento che conteneva dei cigarillos. «Fuma?»
«No, grazie.»
«Mi ha mandato un messaggio per telescrivente, a Ginevra.» Kaufmann prese un cigarillo. «Alcuni mesi fa.»
«Sì.»
«Da allora non abbiamo più avuto sue notizie.»
«Ho cambiato idea.» Bridger ebbe delle contrazioni nervose.
«E ora forse è giunto il momento di cambiarla ancora. Siamo rimasti molto perplessi, sa, negli ultimi mesi.» Parlava seriamente, ma in tono cordiale e tranquillo. Con aria colpevole, Bridger guardò ancora fuori dal finestrino posteriore.