«Presuppone forse che abbia un’intelligenza?» domandò Geers che non aveva tempo per le fantasticherie.
«Senta,» Fleming gli si rivolse. «Il messaggio da noi captato ha fatto due cose: ha stabilito un progetto, e poi ci ha dato moltissime informazioni basilari da mettere nel calcolatore quando l’avessimo costruito. Noi non sapevamo allora cosa fossero quelle informazioni, ma cominciamo a saperlo ora; con quello che c’era nel programma originario e con quello che gli abbiamo detto noi, quello può ottenere tutte le cognizioni che desidera sul nostro conto, e imparerà ad agire di conseguenza. Se questa non è un’intelligenza, non so proprio cosa sia.»
«È una macchina molto utile,» commentò la Dawnay.
Fleming si rivolse a lei.
«Solo perché non è fatto di protoplasma, nessun chimico riesce a considerarlo come un essere pensante.»
La Dawnay sospirò.
«Di che hai paura, John?» chiese Reinhart.
«Dei suoi fini. Non è stata messa qui per divertimento. Né per il nostro bene.»
«Lei è un po’ nevrotico a questo proposito,» disse la Dawnay.
«Pensa?»
«Vi è stata offerta una fortuna inaspettata. Sfruttatela.» La donna si rivolse a Reinhart. «Se usate il metodo del dottor Fleming e vi introducete la formula del carbonio può darsi che otteniate qualche altra cosa. Può darsi che riusciate a ottenere strutture più complicate, e avete una meravigliosa macchina per elaborarle. Tutto qui. Applicatelo.»
«John?» Reinhart si rivolse a Fleming.
«Può fare a meno di contare su di me.»
«Vuole occuparsene lei, Madeleine?» chiese il professore.
«Perché non lei?» gli chiese la donna.
«Dall’astronomia alla biosintesi è un passo molto lungo. Se la sua università potesse privarsi di lei…»
«Possiamo ospitarvi.» Geers, quando si muoveva, si muoveva in fretta. «Ha confessato di essere a un punto morto.»
La Dawnay rifletteva.
«Ci starebbe a lavorare con me, dottor Fleming?»
Fleming scosse il capo. «C’è qualcosa a cui dobbiamo pensare bene prima ancora di cominciare.»
«Non la vedo così.»
«Sono giunto dove volevo. Andare oltre, in realtà, vorrebbe dire solo dimostrare che sono in grado di portare a termine la cosa. Ma per me la strada finisce qui.»
Reinhart aprì la bocca per parlare ma Fleming si volse per uscire.
«D’accordo,» disse Reinhart. «Vuole occuparsene lei, Madeleine?»
Presero gli ultimi accordi dopo che Fleming se ne fu andato.
La Dawnay si trasferì alla base la settimana seguente e si mise al lavoro al calcolatore: l’aiutavano Bridger e Christine e Geers ora era pieno di entusiasmo e di attenzioni. Fleming tornò a Londra e Judy non ricevette sue notizie: essendo un ufficiale in servizio, legata a un giuramento, Judy doveva restare dove le era stato ordinato. In un certo senso era un sollievo essere libera da quella loro equivoca relazione. Dopo quell’unica notte nella villetta di Fleming la ragazza lo aveva tenuto, per quanto possibile, a distanza; era divisa tra l’istinto, che la spingeva ad amarlo, e la netta sensazione di non volere che lui la scambiasse per qualcosa che lei non era. Almeno, mentre era via, Judy non doveva fare rapporto su di lui, ma solo su Bridger, e questo le costava meno.
Bridger non offrì indizi a nessuno. Judy si tenne lontana dalla brughiera e le pattuglie di Quadring non scoprirono nulla. Bridger stesso si faceva sempre più triste e riservato. Lavorava con la solita competenza, ma senza entusiasmo, e passava i ritagli di tempo osservando le ultime migrazioni di uccelli dai nidi di Thorholm.
L’autunno si incupiva nell’inverno. Di ritorno a Londra, Fleming si mise a studiare l’intero messaggio, e tutti i suoi calcoli originali. A Bouldershaw Fell continuavano a intercettare il segnale. Ma ormai era soltanto routine. Il codice era sempre lo stesso; Fleming non riusciva a trovare in tutto il suo lavoro nulla che indicasse quello che temeva.
A Thorness la Dawnay faceva dei progressi notevoli.
«Quel ragazzo aveva ragione su un punto,» diceva a Reinhart. «La storia delle domande e delle risposte. Introduciamo le cifre dell’atomo di carbonio e immediatamente la macchina comincia a stampare roba sulla struttura delle molecole proteiniche.»
Quando ebbe introdotto nuovamente tali informazioni, la macchina cominciò a porre un numero di domande sempre maggiore. Presentava le formule di una grande varietà di strutture basate sulle proteine e voleva chiaramente che le venissero fornite informazioni in maggior quantità su tale argomento. La Dawnay mise al lavoro il suo reparto di Edimburgo, e a risultato della collaborazione reintrodussero nella macchina tutto quello che era conosciuto sulla formazione delle cellule. Prima della fine dell’anno la macchina aveva dato loro la struttura molecolare dell’emoglobina.
«Perché l’emoglobina?» chiese Judy che aveva seguito a Edimburgo la Dawnay nel tentativo di capire quello che accadeva.
«L’emoglobina del sangue porta il rifornimento di elettricità al cervello.»
«E vi ha offerto questa alternativa a un’intera serie di altre?» chiese Reinhart. Si erano incontrati tutti e tre nello studio della Dawnay, in uno dei vecchi grigi palazzi dell’università; Madeleine aveva spiegato loro che desiderava un benestare del Ministero.
«Sì,» confermò. «Come prima. E abbiamo reintrodotto anche questa.»
«Dunque ora la macchina sa come funziona il nostro cervello?»
«Conosce molto più di questo, oggi come oggi.»
Reinhart si strofinava il mento.
«Ma perché diavolo vuole saperlo?»
«Lei è sotto l’influenza di Fleming, vero?» lo rimproverò la Dawnay. «Non è che ‘voglia sapere’ qualcosa. Si limita a calcolare delle risposte logiche da informazioni che noi stessi le diamo e da quelle che già possiede. Perché è una macchina calcolatrice.»
«È tutto qui?» Judy, per quel poco che ne sapeva, condivideva i dubbi di Reinhart.
«Cerchiamo di essere scientifici in questa faccenda,» aggiunse la Dawnay. «Non mistici.»
«Professor Reinhart, lei…»
Reinhart pareva a disagio. «Fleming direbbe che la macchina vuole sapere con che tipo di intelligenza ha a che fare, che tipo di calcolatori siamo, quanto è grande il nostro cervello, come lo nutriamo, in che tipo di creatura il nostro cervello vive.»
«Il giovane Fleming ha dei disturbi emotivi, se vuole sapere il mio parere,» disse la Dawnay; accennò agli scaffali colmi di incartamenti e documentazioni. «Abbiamo tanto materiale ora che quasi ci affoghiamo, ma ho una mezza idea di quel che si tratta, ed è per questo che volevo vederla. Penso che ci abbia dato il progetto di base per una cellula vivente.»
«Una che?»
«Non che ci serva a qualcosa. C’è questa enorme quantità di numeri: è troppo complesso perché li possiamo mai capire completamente.»
«E perché?»
«Ma guardi che razza di roba. Possiamo riconoscere degli stralci di strutture cromosomiche e così via, ma ci vorrebbero anni per analizzare tutto.»
«Se questo è quel che dobbiamo fare.»
«Cosa intende dire?»
Reinhart si sfregò nuovamente il mento. C’era in lui qualcosa di molto confortevole e umano anche quando era immerso nelle sue riflessioni.
«Voglio parlare a Fleming e a Osborne,» disse.
Alla fine li riunì nell’ufficio di Osborne. A quel punto aveva tutti gli elementi in mano e voleva che si agisse. Fleming sembrava invecchiato e stanco, come se la molla dentro di lui si fosse allentata. Aveva il viso segnato, gli occhi iniettati di sangue.
Osborne se ne stava elegantemente appoggiato allo schienale e ascoltava Reinhart.
«La professoressa Dawnay si trova per le mani quella che sembra essere la struttura cromosomica dettagliata di una cellula.»
«Una cellula vivente?»
«Sì. È qualcosa che non abbiamo mai conosciuto prima: l’ordine in cui sono disposte le molecole di acido nucleico.»