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«Posso essere destituita?»

«No.»

«Allora posso avere un incarico diverso?»

«No.»

«Allora posso rassegnare le mie dimissioni?»

«Non in stato di emergenza nazionale.» Gli occhi di Geers, notò Judy, erano troppo vicini. La guardavano dritti in faccia, senza espressione, autoritari. «Se non fosse per il suo stato di servizio, che è molto buono, direi che lei è immatura per questo lavoro. Così come stanno le cose mi sembra molto semplicemente che lei sia sconvolta per un contatto eccessivo con la mentalità scientifica, specialmente con una mentalità ribollente e irresponsabile come quella di Fleming.»

«Non è un irresponsabile.»

«No?»

«Non per quel che concerne le cose importanti.»

«Le cose importanti, in questo centro, sono i mezzi di sopravvivenza. Siamo sottoposti a una pressione molto forte.»

«I militari vedono tutto da un punto di vista militare,» disse gelido Reinhart. Attraversò la stanza per guardare fuori dalla finestra, intrecciando nervosamente le mani dietro la schiena. «È un posto triste questo, lo sa, vero? Abbiamo tutti i nervi tesi.»

Per qualche tempo dopo questa discussione Geers fu più amabile del solito. Faceva tutto il possibile per la Dawnay, facendo razzia tra le nuove attrezzature per rimpiazzare quello che Fleming aveva danneggiato, ed in linea di massima identificandosi con quanto la Dawnay andava facendo. Reinhart combatteva duramente per mantenere la sua autorità, e Judy ritornò al lavoro con una sorta di tetra disperazione. Raccolse perfino tutto il suo coraggio per andare a trovare Fleming, ma la stanza di lui era vuota e vuote erano anche le tre bottiglie di whisky accanto al suo letto. Fleming, con una sola eccezione, non parlò con nessuno nei giorni che seguirono alla morte di Bridger.

La Dawnay era subito ritornata al lavoro: Christine l’aiutava nei calcoli relativamente semplici richiesti dal calcolatore. Nel giro di una settimana riuscirono a produrre un’altra sintesi soddisfacente, e la stavano osservando, una sera sul tardi, nel microscopio che era stato riparato, quando la porta del laboratorio venne aperta, e Fleming entrò vacillando. La Dawnay si raddrizzò a squadrarlo. Non aveva né giacca né cravatta, la camicia era sporca e spiegazzata, e aveva la barba di una settimana, come se fosse all’apice di una crisi di delirium tremens.

«Che vuole?»

La fissò con occhi vitrei e avanzò con un passo incerto.

«Se ne stia fuori di qua, per piacere!»

«Vedo che avete un nuovo apparecchio,» biascicò.

«Esattamente. Vuole andarsene ora?»

«Bridger è morto.» Le sorrise stupidamente.

«Lo so.»

«Ma lei continua come se nulla fosse accaduto.» Era difficile capire quello che diceva. «Ma è morto. Non tornerà mai piti.»

«Lo sappiamo tutti, dottor Fleming.»

Fece un altro passo, ondeggiando. «Che cosa fate, qui?»

«È una cosa riservata. Le spiacerebbe andarsene?» Si alzò per avvicinarglisi, con aria minacciosa. Lui la fissò sbattendo le palpebre; il sorriso svanì dal suo viso.

«Era il mio più vecchio amico. Era uno sciocco, ma era il mio…»

«Dottor Fleming,» gli disse a bassa voce la Dawnay, «vuole andarsene o devo chiamare le guardie?»

La fissò per un attimo, come se cercasse di vederla attraverso una nebbia, poi alzò le spalle e si trascinò fuori. La Dawnay lo seguì fino alla porta, che chiuse alle sue spalle.

«Potremmo anche fare a meno di scene del genere,» disse a Christine.

Fleming ritornò al suo alloggio, trasse dal cassetto della scrivania una bottiglia di whisky già incominciata e la rovesciò nel lavandino. Poi si lasciò cadere sul letto e dormì per ventiquattro ore. La sera dopo si fece la barba, si lavò e cominciò a fare le valigie.

Il nuovo esperimento procedeva in modo fantastico. Nel giro di poche ore la Dawnay dovette trasferire la sua cellula dalla lente del microscopio ad un bagno di coltura, e il mattino seguente dovette trasferirla in una vasca più grande. La cellula continuò a duplicarsi per tutta la giornata; in serata la Dawnay fu costretta a chiedere aiuto a Geers, che si incaricò del problema con aria possessiva, e ordinò alla sua officina di costruire un grande serbatoio, riscaldato elettricamente, con un passaggio per gli elementi nutritivi nell’apertura superiore e uno spioncino di vetro al centro del pannello frontale. Era circa l’alba quando la nuova creatura fu sollevata da quattro assistenti fuori dal suo bagno ormai divenuto inadeguato e venne sistemata nel serbatoio.

In questo nuovo ambiente crebbe fino a diventare grande più o meno come una pecora, poi si fermò. Sembrava che fosse perfettamente sana ed innocua, ma non era certo bella.

Reinhart quel mattino giunse a una risoluzione e andò a trovare la Dawnay. Questa era ancora nel laboratorio, e stava controllando l’indice del nutrimento in cima al serbatoio. Reinhart le gironzolò attorno fino a che non ebbe finito.

«È ancora vivo?»

«Sì, vivo e vegeto.» A parte il pallore e le tracce della tensione attorno agli occhi e alla bocca, non mostrava alcun segno di stanchezza.

«Un giorno fa era una macchia su un vetrino: glielo avevo detto che non c’era nessun motivo perché un organismo non debba crescere alla velocità che si vuole purché gli sia dato nutrimento sufficiente.»

«Ha smesso di crescere, ora?» Reinhart lanciò un’occhiata rispettosa attraverso lo spioncino: poté vedere una forma scura che si muoveva nelle tenebre del serbatoio.

«Sembrerebbe che abbia forma e dimensioni predeterminate,» commentò la Dawnay, prendendo una serie di radiografie e porgendogliele. «Qui non è che ci sia molto da vedere. Non ci sono formazioni ossee. È come una grossa gelatina, ma c’è quest’occhio e una specie di corteccia, che sembra un ganglio nervoso, molto complicato.»

«Nessun’altra caratteristica?» Reinhart sollevò le radiografie e le osservò in trasparenza.

«Forse un accenno a un paio di gambe, sebbene sarebbe difficile dire che sia più di una divisione del tessuto.»

Reinhart depose le lastre, accigliato.

«Come si nutre?»

«Assorbe il nutrimento attraverso la pelle. Vive in un fluido nutritivo e lo assorbe direttamente nelle cellule. Molto semplice, molto efficiente.»

«E il calcolatore?»

La Dawnay sembrava sorpresa.

«Che cosa c’entra il calcolatore?»

«Non ha reagito?»

«E come?»

«Non so.» Reinhart corrugò la fronte, fissandola preoccupato. «Ha reagito?»

«No. È rimasto perfettamente calmo.»

Il professore entrò nella sala di controllo del calcolatore e poi tornò indietro, a capo basso, lo sguardo fisso alle proprie scarpe. Era ancora presto quel mattino, e c’era molto silenzio. Intrecciò le mani dietro la schiena, e parlò, senza guardare la Dawnay.

«Voglio che Fleming torni ad occuparsi di questa faccenda.»

La Dawnay per un attimo non rispose, poi disse: «È perfettamente sotto controllo.»

«Sotto controllo di chi?»

«Sotto mio controllo.»

Alzò a fatica lo sguardo su di lei.

«Abbiamo il tempo contato. Questi signori vogliono che ce ne andiamo.»

«Proprio sul più bello?»

«No. Il Ministero ha combattuto per questo, ma noi dobbiamo lavorare in squadra e dare dei risultati.»

«Ma accidenti! Non sono risultati, questi?» La Dawnay puntò un dito corto ed ossuto a indicare il serbatoio. «Stiamo vivendo la più grossa avventura del secolo… stiamo creando la vita.»

«Lo so,» disse Reinhart, muovendosi a disagio. «Ma dove ci condurrà?»

«Ci sono parecchie cose da scoprire.»

«E non possiamo permetterci altri incidenti.»

«Posso cavarmela da sola.»

«Non si tratta solo di lei, Madeleine.» Reinhart era teso ma controllato. «Tutti noi siamo in ballo.»