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«Conosce il principio su cui si basa questo telescopio?» le chiese Harvey. «Ogni emissione radio proveniente dal cielo colpisce la conca e viene ritrasmessa alle antenne, poi viene ricevuta e registrata dalle apparecchiature qui dentro.» Indicò con la mano la parete divisoria di vetro. Judy non guardò per paura di vedere Whelan, ma Harvey, preciso, ostinato, incolore, già attirava altrove la sua attenzione. «Questo banco di calcolatori ottiene l’azimuth e l’altezza di qualsiasi fonte si voglia mettere a fuoco, e ne segue la traiettoria. C’è un servomeccanismo automatico…»

Finalmente Judy riuscì a fare una scappata nel vestibolo e a restare sola per un attimo con Harries.

«Fai sloggiare Whelan,» gli disse.

Aveva lasciato la valigia all’albergo, in città, ed era salita all’osservatorio senza un’idea molto chiara su ciò che doveva aspettarsi. Aveva visitato parecchie stazioni e in molte aveva lavorato come ufficiale di Sicurezza, da Fylingdales all’isola Christmas. Whelan, come Judy ben sapeva, l’aveva incontrata in una base missilistica in Australia. Con Harries aveva lavorato in una missione a Malvern. Non si considerava una spia e l’idea di dover dare informazioni sui suoi colleghi le risultava sgradevole; ma il Ministero dell’Interno aveva stabilito che lei o qualcun altro venisse trasferito dal Ministero della Difesa, sezione Servizio di Sicurezza, al Ministero della Scienza; un incarico è sempre un incarico. Prima tutti quelli con cui lei lavorava avevano sempre saputo chi fosse e lei aveva sempre pensato che il suo incarico fosse quello di proteggerli. Questa volta, invece, i sospetti erano loro, ai quali lei sarebbe stata spacciata come una di quelle trafficone delle public relations che ficcano il naso dappertutto e fan domande, per non destare allarme. Reinhart lo sapeva e la cosa non gli andava a genio. Quanto a lei, quella parte la disgustava, ma il lavoro è lavoro, e questo, le avevano detto, era un lavoro importante.

Poteva recitare la parte senza difficoltà: aveva un aspetto così onesto, per bene, sembrava una di loro; non doveva far altro che starsene in disparte, ascoltare e imparare. A scoraggiarla era la gente che incontrava; avevano un loro mondo e dei valori loro. Chi era lei per giudicarli o per farli giudicare? Dopo che Harries ebbe annuito e si fu allontanato per far ciò che gli era stato detto, provò un certo disprezzo per sé e per lui.

Il professore partì poco dopo, affidandola a John Fleming.

«Penso che potresti lasciarla al Lion quando torni a Bouldershaw. Abita là.»

Uscirono sulle scale per accompagnarlo.

«Piuttosto simpatico,» commentò Judy.

Fleming grugnì. «Duro come il ferro.»

Trasse di tasca una fiaschetta e bevve, poi l’offri a lei. Al suo rifiuto ne prese un altro sorso: Judy l’osservava, in piedi nella luce del portico, la testa rovesciata all’indietro, il pomo d’Adamo che si muoveva mentre inghiottiva. In lui c’era qualcosa di chiuso, di disperato. Forse, come aveva detto Reinhart, lo avevano spremuto un po’ troppo. Ma non era tutto; dava la sensazione che in lui ci fosse una dinamo in carica permanente.

«Lei giuoca a bocce?» Sembrava avere dimenticato l’indifferenza iniziale nei suoi confronti. Forse perché aveva bevuto. «C’è un campo giù a Bouldershaw. Venga a partecipare ai nostri riusciti passatempi.»

Judy esitava.

«Oh, su, venga. Non la lascerò certo in balìa di questi pazzi di astronomi.»

«Non è un astronomo, lei?»

«Ma le pare? Criogenica, calcolatori: ecco la mia specialità. Non queste stupidaggini cervellotiche.»

Si diressero al piccolo spiazzo dove era ferma l’auto di Fleming. Alla sommità del telescopio brillava una luce rossa, simile a quella di un faro, e dietro di essa, nel cielo scuro, cominciavano ad accendersi le stelle. Se ne potevano già vedere alcune attraverso gli archi altissimi dei piloni, come già catturate dall’uomo. Arrivati vicino alla macchina, Fleming si volse a guardare in alto.

«Ho il presentimento,» disse, e la sua voce risuonò più pacata, gentile, e non più aggressiva, «che si sia giunti al punto di rottura nelle scienze fisiche.»

Cominciò ad abbassare la capote dell’auto, una piccola macchina sportiva, mentre lei passava dall’altra parte.

«La aiuto.»

Parve non sentire.

«A un certo momento, a un certo punto della cerchia delle nostre conoscenze siamo destinati a… hop, andare al di là. Dritto in un nuovo territorio. E potrebbe essere qui, in questo campo.» Avvoltolò la capote dietro il sedile. «’La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi, io dico l’universo.’ Chi l’ha scritto?»

«Churchill.»

«Churchill?» Rise. «Galileo. ‘Egli è scritto in linguaggio matematico.’ Ecco cosa ha detto Galileo. Le serve per un comunicato stampa?»

Judy lo guardò, senza saper bene come prenderla. Fleming le aprì la portiera.

«Andiamo.»

La strada da una parte scendeva nel Lancashire, e dall’altra nello Yorkshire. Nello Yorkshire si dirigeva in una lunga valle dove, ogni poche miglia, si levavano, sul fiume, dei vecchi, alti mulini di mattoni, fino a giungere a Bouldershaw. Fleming guidava molto in fretta, borbottando.

«Mi danno ai nervi… L’inaugurazione… e quei maledetti ministri… Il vecchio professore che si dà un gran daffare a preparare l’elenco degli ospiti d’onore. La banda di quelli del Ministero che scocciano e tormentano tutti. In realtà non è che un qualsiasi osservatorio. Ma siccome è grande e costa un patrimonio diventa proprietà pubblica. Non che ne faccia colpa al professore. Ormai c’è dentro fino al collo. Si è impegnato e deve tirar fuori dei risultati.»

«Be’, non sarà così?»

«Non so.»

«Mi pareva che l’attrezzatura fosse sua.»

«Mia e di Dennis Bridger.»

«Dov’è il dottor Bridger?»

«Giù al campo di bocce. Ci aspetta, e spero che abbia già prenotato una pista. E una bottiglia.»

«Ne abbiamo già una.»

«Cosa ce ne facciamo di una? Viene sete, da queste parti.»

Mentre filavano giù per la buia strada tutta curve, cominciò a parlarle di sé e di Bridger. Tutti e due avevano studiato all’Università di Birmingham, e avevano fatto insieme dei lavori di ricerca al Cavendish. Fleming era un teorico, Bridger era per l’applicazione pratica, matematico e ingegnere. Bridger era uno scienziato di carriera, deciso a ottenere il massimo nel suo campo. Fleming era un ricercatore puro, a cui interessavano solo i fatti. Ma entrambi disprezzavano il sistema accademico nel quale erano stati educati e se ne stavano per conto loro. Reinhart se li era portati via alcuni anni prima, perché collaborassero al nuovo telescopio. E poiché egli era, con molta probabilità, l’astrofisico più illustre e stimato del mondo occidentale, un vero capo e un cacciatore di talenti, lo avevano seguito senza esitazioni, e lui li aveva spalleggiati, incoraggiati e protetti come un padre, durante il lungo e tortuoso processo di realizzazione.

Si sentiva immediatamente, quando Fleming parlava, la mutua fiducia che, dietro la sua rudezza, lo legava al professore. Bridger, al contrario, era annoiato e irrequieto. Aveva fatto la sua parte, e, come disse Fleming senza modestia né presunzione, avevano dato al loro vecchio amico il più favoloso apparecchio della Terra.

Non fece domande sul conto di Judy e lei se ne stette in silenzio. La ragazza salì nella sua stanza e lui rimase ad attenderla nel bar del Lion. Quando giunsero al campo di bocce, Fleming era sfinito.

Il campo di bowling era un cinema riadattato che spiccava in un lago di luce al neon e di riflettori nello sfondo buio della vecchia cittadina di provincia. Pareva che la clientela non provenisse da quelle strade acciottolate. Per lo più erano ragazzi. Portavano pantaloni di tela, giubbotti di cuoio, capelli a spazzola, maglioni con le iniziali. Era difficile immaginarli nell’intimità delle vecchie case che si allineavano lungo le squallide valli dello Yorkshire. Le loro intonazioni dialettali erano soffocate da un fiume di musica e dal frastuono e dal tramestìo delle bocce e dei birilli sui tavolati delle piste. Ce n’erano sei o sette: ognuna aveva a un’estremità dieci birilli e all’altra la rastrelliera per le bocce, un tavolino per segnare i punti, una panca e quattro giocatori. Quando una boccia colpiva il bersaglio segnando un punto, un rastrello automatico raccoglieva i birilli e faceva ritornare le bocce alla rastrelliera vicino al giocatore. Salvo che per il momento di atletica concentrazione in cui si gettava la boccia, i giocatori parevano disinteressarsi alla gara: se ne stavano lì attorno, a chiacchierare, a bere coca-cola a garganella. Era un ambiente più americano di quanto fosse stato il cinema: pareva che attraverso lo schermo l’atmosfera statunitense fosse esplosa e si fosse impossessata del pubblico. Ma era così, rifletteva Fleming, che le cose andavano, in quel modo dell’accidente.