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«E sapete anche da che parte sto io,» ribatté Judy, e se ne andò sbattendo la porta.

L’istinto le suggeriva di andare subito da Fleming, ma non riusciva proprio ad affrontare il rischio di un’altra snobbata. Fu la Dawnay, invece, che andò a trovarlo, verso sera, mentre di ritorno dall’ufficio andava al calcolatore. Lo trovò nel suo alloggio, intento a guardare il primo ministro che parlava alla televisione.

«Entri,» la invitò, senza espressione. E le fece posto ai piedi del letto. La Dawnay fissava lo schermo azzurrino che tremolava; cercò di avere fiducia nel viso sicuro, maturo, sportivo e aristocratico del primo ministro, e nella sua voce lenta e strascicata. Fleming stava seduto a guardare e ad ascoltare, con lei.

«Fino dai giorni placidi e felici della regina Vittoria,» annunciava la voce senza corpo, «questo paese non ha più avuto una posizione di preminenza così evidente nei campi dell’industria, della tecnica, e soprattutto della sicurezza, come ai giorni nostri…»

La Dawnay sentiva che non riusciva a concentrare la propria attenzione. «Mi spiace averla interrotta.»

«No, non mi ha interrotto.» Fece una smorfia accennando all’apparecchio. «Spegniamo quel vecchio idiota.»

Si alzò e spense lui stesso il televisore, poi le versò da bere. «È una visita mondana?»

«Stavo solo andando verso il calcolatore, quando ho visto le sue finestre illuminate. Grazie.» Accettò il bicchiere.

«Lavoro straordinario?» le chiese.

Lei sollevò il bicchiere guardandolo al di sopra del bordo. «Dottor Fleming, io ho detto parecchie cose poco generose nei suoi confronti, in passato.»

«Non è la sola.»

«Riguardo il suo atteggiamento.»

«Mi sbagliavo, vero? Così dice il primo ministro. Mi sbagliavo in pieno.» Parlava più con dolore che con rabbia, e si versò da bere, ma poco.

«Ho dei dubbi,» disse la Dawnay. «Comincio ad avere dei dubbi.»

Fleming non rispose ma la Dawnay aggiunse: «Anche Judy Adamson comincia ad avere dei dubbi.»

«Meraviglioso,» grugnì lui.

«Ha combattuto una vera battaglia, con Geers, oggi pomeriggio. Devo dire che mi ha dato da pensare.» Prese un sorso e lo mandò giù lentamente, guardando con calma attraverso il bicchiere e rimuginando la situazione. «Sembra abbastanza onesto, fare uso di quel che abbiamo, di quel che lei ci ha dato.»

«Non insista.»

«Eppure non so. Nella potenza di quella macchina c’è qualcosa di corruttore. Lo si vede dall’effetto che ha sulla gente di qui e sul governo.» Accennò al televisore. «Come se fosse una cosa perfettamente normale, la gente di buon senso viene presa da una volontà non sua. Penso che tutti e due, noi, lo abbiamo sentito. Eppure, tutto ciò sembra abbastanza inoffensivo.»

«Davvero?»

Gli parlò della produzione dell’enzima. «È benefico. Rigenera le cellule, ecco tutto. Influirà su un sacco di cose, dall’innesto epidermico all’invecchiamento. Sarà, dopo gli antibiotici, il ritrovato medico più importante.»

«Una manna per molta gente.»

Quando la Dawnay si mise a parlare della questione Intel, lui reagì appena.

«Dove andremo a finire?» si chiese la Dawnay. Non aspettava una risposta ma ne ebbe ugualmente una.

«Un anno fa questa macchina non aveva alcun potere al di fuori del suo edificio, e anche lì eravamo noi a tenerla sotto controllo.» Parlava senza passione, come se ripetesse un’antica verità. «Ora tutta la nazione dipende da essa. Cosa accadrà? Ha sentito, non è vero? Torneremo a essere la massima potenza del mondo, e chi sarà l’eminenza grigia nascosta dietro a questo trono?»

Indicò la televisione, come aveva fatto prima la Dawnay. Poi sembrò che fosse stanco di quella conversazione; si diresse al giradischi e l’accese.

«Avrebbe potuto tenerlo sotto controllo?» La Dawnay non voleva lasciar cadere l’argomento.

«No, negli ultimi tempi, no.»

«Cosa avrebbe potuto fare?»

«Avrei fatto dell’ostruzionismo, per quanto possibile.» Tirò fuori un disco da una pila di microsolco. «E lo sa, ora che ha la sua creatura a dargli informazioni sul mio conto. È riuscito a farmi cacciar via. ‘Lei non può vincere,’ mi ha detto Andromeda.»

«La ragazza le ha detto questo?»

Fleming annuì e la Dawnay aggrottò la fronte guardando nel suo bicchiere semivuoto. «Non so. Forse è inevitabile. Forse è l’evoluzione.»

«Senta…» Depose il disco e si volse verso di lei. «Posso prevedere un tempo nel quale creeremo una forma di intelligenza più alta alla quale, alla fine, noi cederemo. E probabilmente sarà una forma inorganica, come questa. Ma sarà qualcosa che noi stessi abbiamo creato, e possiamo progettarlo per il nostro bene, o per quello che noi definiamo il bene. Questa macchina non è stata progettata per il nostro bene, o, se lo è stata, qualcosa non ha funzionato.»

La donna finì di bere. Quello che lui diceva era molto probabile, anzi, più che probabile: c’era in quanto lui diceva una sana logica che negli ultimi tempi le era sfuggita. Da bravo scienziato empirista, la Dawnay sentiva che in qualche modo doveva venire provato.

«Chi può dirlo, se non lei?» gli chiese.

Fleming scosse il capo. «Nessuno di questa gente.»

«Potrei fare qualcosa io?»

«Lei?»

«Io ho accesso al calcolatore.»

Lui perse all’improvviso ogni interesse per il disco. Il suo viso si illuminò come se dentro di lui si fosse acceso un circuito elettrico. «Sì, perché no? Potremmo tentare un piccolo esperimento.» Sollevò dal tavolo il blocco sul quale aveva scritto la formula di André al negativo. «Ha qualcuno laggiù che possa introdurlo?»

«André?»

«No, non lei. Qualsiasi cosa lei faccia, Madeleine, non le dia la sua fiducia.»

La Dawnay si ricordò dell’operatore. Raccolse il blocco e Fleming le mostrò la sezione che avrebbe dovuto introdurre.

«Non capisco più nulla, devo ammetterlo,» disse. Poi depose il bicchiere e uscì.

Attraversando il recinto, sentì uscire dall’alloggio di Fleming le prime battute di un brano musicale di qualche postschönberghiano: poi si ritrovò nell’edificio del calcolatore dove si udiva solo il ronzio della macchina. Nella sala di controllo c’era André e un giovane operatore. André se ne stava ancora più per conto suo da quando era successo l’incidente delle mani. Si aggirava per l’edificio del calcolatore come un fantasma e se ne allontanava raramente. Non faceva alcun tentativo di comunicare con chicchessia, e sebbene non avesse mai un atteggiamento ostile, era completamente riservata. Quando la Dawnay entrò, la guardò con scarso interesse.

«Come va?» chiese la Dawnay.

«Abbiamo introdotto tutti i dati,» rispose André. «Credo che otterrete presto la formula.»

La Dawnay si allontanò e raggiunse l’operatore all’unità di entrata. Era un giovane da poco laureato che si stava perfezionando, e che non faceva domande, ma eseguiva quanto gli veniva detto.

«Introduca anche questo.» La Dawnay gli diede il blocco. Lui lo pose sulla tastiera e cominciò a battere.

«Cos’è?» chiese André sentendo il rumore.

«Una cosa che voglio mi venga calcolata.» La Dawnay la tenne lontana dal calcolatore fino a che il quadro di controllo, all’improvviso, prese a lampeggiare selvaggiamente.

«Cosa sta introducendo?» André allungò una mano verso il blocco e lesse. «Dove l’ha trovato?»

«È affar mio,» rispose la Dawnay.

«Perché si immischia in questa storia?»

«È meglio che ci lasci sole,» disse la Dawnay all’operatore. Quello, obbediente, si alzò e uscì dalla stanza. André attese che fosse uscito.

«Non le voglio male,» disse poi, e nella sua voce non c’era passione, ma solo una grande forza. «Perché se ne immischia?»

«Come osa parlarmi così?» La Dawnay sentiva che la sua voce suonava debole e ridicola, ma non riuscì a rispondere altrimenti. «Io ti ho creato. Io ti ho fatto.»