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«Disgraziata.» Le afferrò il polso torcendoglielo fino a farle lasciare il coltello e la gettò a terra. Lei si contorceva, ansimante, sul pavimento, tenendosi con una mano il polso dolorante, e lo fissava, non tanto con rabbia quanto con disperazione. Fleming si chinò a raccogliere il coltello continuando a tenerla d’occhio.

«E va bene… Uccidimi.» Nella voce di lei adesso c’era paura, e anche sul viso. «Non ti servirà a nulla.»

«No?» Anche la voce di Fleming tremava: ansimava.

«Rimanderà di poco le cose, e basta.» L’osservò, intenta, aprire un cassetto e far scivolare dentro il coltello. Questo parve ridarle coraggio e si alzò a sedere.

«Perché mi vuoi eliminare?» chiese lui.

«Era la prima cosa che dovevamo fare. Ti avevo messo in guardia.»

«Grazie.» Fece qualche passo per la stanza, abbottonandosi il pigiama, infilando i piedi in un paio di pantofole, e andava calmandosi.

«Tutto quel che fai è prevedibile.» Sembrava che la ragazza avesse ripreso il controllo di sé. «Nulla di quel che pensi manca di una risposta.»

«Qual è il primo passo, ora?»

«Se te ne vai immediatamente e non ti metti di mezzo…»

La interruppe. «Alzati.» Lei lo guardò sorpresa. «Alzati.» Aspettò finché non si fu levata in piedi, poi le indicò una sedia. «Siedi là.»

Andromeda gli diede un’occhiata, senza capire, poi sedette. Lui le si piantò davanti. «Perché fai solo quel che vuole la macchina?»

«Siete talmente infantili, voi,» gli rispose. «Pensate che siamo schiava e padrone, io e la macchina, ma siamo ambedue schiavi. Siamo dei recipienti che voi avete fatto per qualcosa che non capite.»

«E tu lo capisci?» chiese Fleming.

«Io riesco a vedere la differenza fra la vostra e la nostra intelligenza. Posso vedere che la nostra avrà il sopravvento e la vostra morirà. Voi pensate di essere il non plus ultra di tutte le cose, l’ultima parola…» Si interruppe massaggiandosi il polso dolorante.

«Io non la penso così,» disse Fleming. «Ti ho fatto male?»

«Non molto. Sei più intelligente della maggior parte della gente, tu, ma non abbastanza… farete la fine dei dinosauri. Erano loro ad avere la Terra sotto il loro comando, una volta.»

«E tu?»

Sorrise ed era la prima volta che Fleming la vedeva sorridere.

«Io sono l’anello mancante.»

«E se noi ti spezziamo?»

«Ne faranno un altro.»

«E se rompiamo la macchina?»

«Lo stesso.»

«E se distruggiamo tutti e due voi, il messaggio e tutto il lavoro che abbiamo fatto, così che non ne rimanga nulla? Il messaggio è finito… lo sapevi?»

Lei scosse il capo. Il fatto che Andromeda gli confermasse tutte le sue paure gli piombava addosso come una valanga, ma all’istante stesso comprese come dovesse agire per eliminarle. «I tuoi amici di lassù si sono stancati di parlarci. Dovete cavarvela per conto vostro, ora, tu e il calcolatore. E se vi eliminassimo tutti e due?»

«Terrete lontana dalla Terra un’intelligenza superiore per un po’ di tempo.»

«È questo che dobbiamo fare, allora.»

André sollevò lo sguardo su di lui, con fermezza. «Non potete.»

«Possiamo provare.»

Lei scosse ancora il capo, lentamente, come se le dispiacesse. «Vattene, vivi come vuoi, finché puoi, non ti è possibile fare altro.»

«A meno che tu non mi aiuti.» Ricambiò lo sguardo continuando a fissarla come aveva fatto prima nella sala del calcolatore. «Non sei solo una macchina pensante, sei fatta a nostra somiglianza.»

«No!»

«Hai sensi, sentimenti. Sei per tre quarti un essere umano, legato da una costrizione a qualcosa che è stato creato per distruggerci. Per liberare te stessa e salvare noi non devi far altro che cambiarne la disposizione.» La prese per le spalle come se volesse scuoterla, ma lei allontanò bruscamente le sue mani.

«Perché dovrei?»

«Perché lo vuoi, tre quarti di te stessa…»

Si alzò, si allontanò da lui.

«Quei tre quarti di me sono un incidente. Non pensi che io soffra già abbastanza per come stanno le cose? Non pensi che vengo punita anche solo perché ti sto ad ascoltare?»

«Sarai punita, questa sera?»

«No, se te ne vai.» Si diresse esitante verso la porta, come se attendesse che Fleming la fermasse, ma lui la lasciò andare. «Sono stata mandata a ucciderti.»

Ferma contro lo sfondo oscuro della porta era molto pallida e bella. Parlavano senza passione, senza soddisfazione. Lui la guardò, cupo.

«Bene, abbiamo deposto le armi,» disse.

Accanto alla stazione di Thorness c’era un piccolo caffè dal tetto spiovente, e fu qui che Judy lasciò Fleming mentre aspettava il treno di Aberdeen. Era soltanto la sera del giorno dopo: Reinhart aveva agito alla svelta. Fleming entrò nella piccola stanza del retro che era stata loro riservata e attese. Era una stanzetta triste e squallida, dominata da una vecchia tavola rustica e da una serie di sedie; le pareti erano ricoperte di legno rovinato e scrostato, e vi erano appese delle pubblicità scolorite di coca-cola e di acqua minerale. Bevve un sorso dalla sua borraccia. Sentiva il vento che andava aumentando, ululare di fuori, e poi in lontananza l’automotrice che giungeva rumoreggiando da sud. Si fermò alla stazione, sbuffando rumorosa, e dopo uno o due minuti, si sentì un fischio, l’urlo della sirena e filò via, lasciando di fuori il silenzio; giungeva ancora il suono del vento, e sulla ghiaia, fuori dal caffè, un rumore di passi.

Judy fece entrare Reinhart e Osborne nella stanza. Erano tutti imbacuccati in pesanti abiti invernali, e Osborne portava una valigia piuttosto grande.

«Si sta preparando una tempesta, temo,» disse, mettendo la valigia a terra. Aveva un’aria infelice e assolutamente fuori dal suo elemento. «Possiamo parlare, qui dentro?»

«È tutto a nostra disposizione,» disse Judy. «Mi sono messa d’accordo con l’uomo.»

«E l’operatore di turno?» chiese Reinhart.

«Mi sono messa d’accordo anche con lui. Sa cosa deve fare e terrà la bocca chiusa.»

Reinhart si rivolse a Fleming. «Come sta Madeleine Dawnay?»

«Se la caverà. E anche il ragazzo. L’enzima funziona a dovere.»

«Bene, grazie a Dio per questo.» Reinhart si sbottonò il cappotto. Non sembrava affatto stanco per il viaggio: anzi, pareva che l’attività lo ringiovanisse. Di loro, Osborne era quello che appariva più scoraggiato.

«Cosa vuole combinare con il calcolatore?» chiese a Fleming.

«Cercare di toglierlo dal circuito, altrimenti…»

«Altrimenti?…»

«È quello che vogliamo scoprire. O è deliberatamente malevolo, oppure è guasto. O è stato programmato per funzionare come funziona, oppure gli è successo qualcosa. Io sono per la prima ipotesi: l’ho sempre pensato.»

«Non hai mai potuto dimostrarlo.»

«E la Dawnay?»

«Abbiamo bisogno di qualche prova più tangibile.»

«Osborne andrà dal ministro,» intervenne Reinhart. «Andrà dal primo ministro se necessario, vero?»

«Se ne ho le prove,» disse Osborne.

«Io vi darò le prove! C’è stato un altro tentativo di uccidermi, la notte scorsa.»

«Come?»

Fleming raccontò loro la storia. «Alla fine l’ho costretta a dirmi la verità. Dovreste provare cosa vuol dire, una volta o l’altra, allora ci credereste.»

«Abbiamo bisogno di una prova più scientifica.»

«Allora concedetemi qualche ora in compagnia del calcolatore.» Guardò Judy. «Mi hai portato un lasciapassare?»

Judy trasse dalla borsetta tre lasciapassare, e ne diede uno a ciascuno. Fleming lesse quello che gli era stato dato e fece una smorfia.

«Così, sarei un funzionario del Ministero? Finalmente.»