«Vai avanti, se puoi,» le gridò ancora, «e da’ un’occhiata fuori.»
La vide dirigersi verso prua.
«Non sarà una cosa lunga, ora,» disse, con più speranza di quanta ne sentisse. La barca avanzò con regolarità per dieci, quindici, trenta minuti. Più avanti trovarono una leggera risacca, si abbassarono e rollarono un po’, ma la neve smise di cadere e la notte sembrava farsi meno scura. Fleming si chiedeva se erano abbastanza lontani dalla scogliera da lasciare una traccia sullo schermo radar di qualcuno, e si chiese anche cosa stesse accadendo alle loro spalle, alla base, e cosa si stendesse davanti a loro nell’oscurità deserta. Gli occhi gli dolevano, e così la testa e la schiena, anzi, tutto il suo corpo, e si costringeva a pensare alle bruciature della ragazza e alle sue mani doloranti per sentirsi meglio.
Dopo circa quaranta minuti lei gli gridò qualcosa. Abbandonò la manovella e lasciò che la barca scivolasse lentamente verso una forma più scura che le si stendeva davanti: poi lasciò girare il timone così che si trovarono a fiancheggiare la liscia superficie rocciosa dell’isola. Procedevano molto lentamente, quasi a naso, e stavano ad ascoltare il suono dei frangenti davanti a loro, fino a che, qualche minuto più tardi, la parete di roccia degradò e udirono il lieve sciacquio delle onde contro la spiaggia.
Fleming lasciò che la barca si incagliasse e trasportò la ragazza sulla sabbia, bagnandosi nell’acqua salata che gli arrivava al ginocchio. Vi era ora un luce precisa nel cielo, non certo l’alba, ma forse la luna, ed egli poté riconoscere la stretta insenatura sabbiosa che aveva scoperto con Judy quel pomeriggio, all’inizio della primavera, tanto tempo addietro, quando avevano trovato nella caverna le carte di Bridger. Fu un ricordo triste e al tempo stesso confortante: sentì, in modo irrazionale, che era arrivato a casa.
Si guardò attorno in cerca di un luogo dove riposare. Era troppo freddo per dormire all’aperto, anche se avessero potuto farlo, perciò si diresse all’entrata della caverna e percorse la galleria che aveva esplorato con Judy. Non poteva sostenere più André, ma procedeva lentamente, parlandole, volgendosi un poco per farle coraggio.
«Mi sembra di essere Orfeo,» disse tra sé. «Sto mescolando i miti. Ero Perseo poco fa.»
Si sentiva la testa leggera e vagamente stordita, per la fatica; sbagliò strada due volte nelle gallerie buie. Stava cercando l’ampia grotta dove avevano trovato la pozza d’acqua, poiché ricordava un fondo sabbioso dove avrebbero potuto riposare; ma dopo un po’ si accorse che aveva preso una strada sbagliata. Si volse, girando la torcia, per dirlo ad André, ma lei non c’era.
Con terrore improvviso rifece incespicando la strada già percorsa chiamandola e illuminando con la pila le volte della galleria. La sua voce gli tornava in un’eco derisoria e quello era l’unico suono oltre ai suoi passi sulle rocce. All’entrata della grotta si fermò e guardò ancora indietro. Era assurdo, si disse, perché non erano andati molto lontani. Per la prima volta provò un attimo di risentimento verso la ragazza; cosa veramente illogica, ma la logica per lui aveva sempre meno importanza. Mentre ripercorreva la galleria, notò che vi erano più diramazioni di quante ne ricordasse: pareva far parte dell’ossessivo mistero di quel luogo: le gallerie si moltiplicavano silenziosamente nel buio. Ne esplorò alcune ma dovette tornare sui propri passi perché tutti i passaggi, in un modo o nell’altro, diventavano impraticabili; e infine, improvvisamente, fu nell’alta grotta che non aveva trovato prima.
Si fermò e la chiamò ancora, facendo ondeggiare la torcia lentamente da una parete all’altra; senza possibilità di dubbio sentì che André doveva essere là: non sarebbe potuta andare molto più lontano stanca com’era nell’oscurità. Abbassò il raggio della torcia sul terreno sabbioso e vide le sue impronte. Le impronte lo portarono al centro della caverna e là si arrestò, bruscamente: un brivido di orrore gli corse dalla nuca per tutto il corpo. L’ultima impronta era sulla fanghiglia delle rocce sull’orlo della pozza e, a pelo dell’acqua, galleggiava uno dei suoi guanti. Null’altro.
Non trovò mai null’altro. Le avevano insegnato tante cose, pensava amaramente, ma non a nuotare. Fu colto da una fitta acuta di dolore e di rimorso. Passò l’ora successiva in una morbosa esplorazione della caverna, senza speranza; poi tornò stancamente alla spiaggia e là rimase, appoggiato tra due rocce, fino all’alba. Non temeva di addormentarsi. Aveva un’immensa, quasi delirante paura di qualcosa di indicibile che uscisse dall’imboccatura della galleria, qualcosa di inestinguibile che veniva da milioni di chilometri di distanza, qualcosa che gli aveva parlato per la prima volta in una notte scura come quella.
Ma non uscì nulla dalla galleria, e dopo la prima ora, o poco più, di luce, dal mare una scialuppa avanzò verso di lui. Egli non si mosse, neppure quando la scialuppa raggiunse l’isola e l’equipaggio lo trovò, lo sguardo perduto nel mutevole aspetto del mare.