«Che devo comunicare alla stampa?» gli chiese Judy.
«Nulla.»
«Nulla?»
«Siamo una società segreta o che diavolo?» Fleming lo fissò sprezzante, ma Osborne cercò di apparire ufficiale e ragionevole al tempo stesso.
«Non potete diffondere delle informazioni confuse come queste. C’è altra gente che deve essere consultata, e inoltre si potrebbero avere delle manifestazioni di panico: astronavi, dischi volanti, mostri con occhi da basilisco. Tutti gli idioti del paese crederanno di vederne. E poi potrebbe trattarsi di una cosa qualsiasi… No, nulla deve apparire sui giornali, Miss Adamson.»
Lasciarono Fleming in ebollizione e andarono nell’ufficio del professore per telefonare al Ministero; poi ripartirono.
Al Lion di Bouldershaw la stampa era già cominciata ad arrivare per occuparsi della cerimonia dell’inaugurazione. Judy fece entrare Reinhart e Osborne da una porticina posteriore in una piccola saletta, dove venne loro servita piuttosto tardi la cena; schivavano così la crescente falange dei corrispondenti scientifici, accampati nel salone. Tra un piatto e l’altro Osborne faceva prudenti sortite in direzione della cabina telefonica, e ogni volta tornava visibilmente più depresso e infastidito.
«Che ha detto il ministro?»
«Ha detto… ‘Consultate Vandenberg.’»
Finirono di mangiare senza molta voglia della carne piuttosto fredda, poi Osborne uscì di nuovo.
«Che ha detto Vandenberg?»
«Cosa credete che potesse dire? ‘Acqua in bocca su tutto.’»
Judy doveva comunicare alla stampa, l’indomani, che la inaugurazione era stata differita a causa di un intoppo tecnico, e nulla di più. Ogni ulteriore comunicato sarebbe stato fatto da Londra alle redazioni di Fleet Street.
Con ogni precauzione riuscirono ancora a scivolare fuori dalla porta posteriore senza essere notati.
Mezz’ora più tardi l’auto di Fleming si fermava davanti all’albergo, e lo studioso, stanco e assetato, spariva nel salone.
Quella sera il messaggio fu di nuovo captato. Proseguì per tutta la notte e fu registrato a turno da Fleming e da Bridger, e non soltanto i punti e le linee che erano facili a udirsi, ma anche la parte del messaggio trasmessa ad alta velocità. Il mattino seguente Dennis Bridger scese da solo a Bouldershaw, e Harries lo seguì. Dopo aver lasciato la macchina nel parcheggio di Town Hall, Bridger si incamminò lungo il selciato di una via laterale verso la parte bassa della città. Harries lo seguiva a piedi, a un isolato di distanza. Con un impermeabile al posto del suo solito grembiule, Harries assomigliava più a un bandito irlandese che a un uomo delle pulizie, e stava molto attento a non farsi scorgere da Bridger. Ma proprio Harries non notò una coppia di persone sul marciapiede, sul lato opposto della strada, accanto a una piccola porta che recava l’insegna James Oldroyd, allibratore. C’era molta gente lì attorno: due persone che parlassero insieme passavano inosservate.
Sulla soglia Bridger si volse, ed entrò in uno stretto passaggio male illuminato: le scale dalle guide di linoleum si inerpicavano al piano superiore e ai piedi della scala si trovava una porta dal vetro smerigliato. Quando chiuse la porta esterna, il rumore della strada venne tagliato fuori, lasciando il vestibolo tetro come una cripta. La porta dal vetro smerigliato portava la medesima scritta, James Oldroyd. C’era anche scritto «avanti.» Bridger entrò.
Benché fosse tardi, James Oldroyd stava facendo colazione, seduto alla sua scrivania. Era un uomo anziano, teneva arrotolate le maniche della camicia e indossava un cardigan scuro e scolorito; quando Bridger entrò stava intingendo con la punta della forchetta un pezzo di pane nell’uovo al burro. Nell’ufficio non c’era nessun altro, eppure la stanzetta pareva affollata. C’era un’enorme confusione: molti telefoni, una calcolatrice, un’apparecchiatura telegrafica e una telescrivente. Alle pareti parecchi calendari pubblicitari, strappati a mesi diversi, e, troneggiante, un vistoso orologio. Mr. Oldroyd levò lo sguardo da quell’insieme di vecchia paccottiglia e di attrezzature nuove per guardare un attimo Bridger.
«Oh, è lei.»
Bridger accennò alla telescrivente.
«Tutto bene?»
A mo’ di risposta, Mr. Oldroyd si fissò in bocca il pezzo di pane imbevuto d’uovo, e Bridger si mise al lavoro alla telescrivente.
«Come vanno gli affari?» chiese, dopo averla accesa e avere composto un numero. Sembrava un saluto convenzionale tra vecchie conoscenze.
«Così così,» rispose Mr. Oldroyd. «I cavalli non hanno senso di responsabilità. Se non arrivano tutti insieme vanno come delle lumache.»
Bridger batteva sulla telescrivente: KAUFMANN TELESCRIVENTE 21303 GINEVRA. Quindi si rese conto che fuori, nel vestibolo, era scoppiata una mischia; per un momento una testa si profilò contro il vetro della porta. Poi si sentì un borbottio, un gemito e infine la testa fu spinta via da altre due figure meno distinte. Bridger lanciò un’occhiata a Oldroyd che pareva non essersi accorto di nulla, intento a tagliare la cotenna da una fetta di pancetta: tornò alla telescrivente. Quando ebbe finito di scrivere, uscì con ogni precauzione nell’ingresso. Era libero. La porta che dava sulla strada oscillava, semiaperta, ma nella strada non c’era segno di alcunché di insolito. Nessuno era fermo sull’altro lato, nessuno osservava da un angolo. Una macchina, che si stava allontanando, avrebbe potuto avere a che fare con l’incidente, e forse no.
Dennis Bridger si avviò al parcheggio: le gambe gli tremavano.
Notizie del messaggio apparirono attraverso un’agenzia stampa in tempo per l’edizione della sera. Quando il generale Vandenberg fece visita al ministro della Scienza per protestare, veniva teletrasmessa una dichiarazione governativa. Il ministro non c’era. Osborne si fermò con Vandenberg nell’ufficio del suo capo, fissando lo schermo dell’apparecchio televisivo, in un angolo della stanza, sul quale l’annunciatore leggeva con fare serio e compreso.
Il governo di quel periodo era una raccolta di talenti, rappresentativa, sì, ma priva di scopo; questo «serrare le file» in tempo di crisi era stato soprannominato «governo meritocratico.» Erano uomini e donne di notevoli capacità, ma senza alcun principio comune, eccetto quello di sopravvivere. Il primo ministro era un conservatore, il ministro del Lavoro un sindacalista rinnegato; alcuni posti chiave erano occupati da uomini più giovani, attivi e ambiziosi come il ministro della Difesa, altri da persone meno capaci ma che impressionavano il pubblico con la loro capacità dialettica, come il ministro della Scienza. L’idea della differenza tra i partiti era stata smarrita, piuttosto che eliminata: forse, in questa nazione, era la fine della partitocrazia. Nessuno si preoccupava molto, e l’intero paese si perdeva in un’apatia senza speranze, in opposizione a un mondo che ormai sfuggiva al suo controllo. Alcuni rimasugli dello schieramento di sinistra, gli estremisti, facevano sì che la parola «Vichy» venisse scritta di quando in quando sui muri di Whitehall, ma questo era l’unico segno visibile di vita; la gente si occupava in pace della propria esistenza e sui pubblici affari era caduto uno strano silenzio. Si diceva che c’era tanto silenzio che si poteva sentir cadere una bomba.
In questo vuoto piombò la notizia del messaggio proveniente dallo spazio. I giornali, come ci si poteva aspettare, presero la notizia per il verso sbagliato. Gli uomini dello spazio spargono il terrore. Preludio all’aggressione? chiedevano. Dallo schermo televisivo l’annunciatore leggeva compunto la dichiarazione ufficiale:
«Questa sera il governo ha smentito con veemenza la notizia circa una possibile invasione dallo spazio. Un portavoce del Ministero della Scienza ha specificato ai giornalisti che, mentre è vero che ciò che sembrava essere un messaggio è stato captato a Bouldershaw Fell, non c’è alcuna ragione di credere che questo provenga da un’astronave o da un pianeta vicino. Comunque, qualora il segnale captato sia un messaggio, proviene da una fonte molto lontana.»