«Poi siamo andate a vedere l’eterica e io ho cominciato a riflettere sul tuo collega. Ricordi quelle fotografie che hai portato a casa, quelle scattate da Julius Enderby a Spacetown, per farti vedere come sono i robot degli Spaziali? Be’, ho pensato che il tuo collega ci assomigliava, e mi sono detta: Oh Dio, qualcuno può averlo riconosciuto nel negozio di scarpe, e adesso è con Lije… Così ho inventato che avevo il mal di testa e sono corsa qui…»
Baley disse: «Calmati, cara, calmati. Torna in te. Perché hai paura? Non di Daneel, immagino: ti sei comportata splendidamente con lui quando sei tornata a casa. Quindi…»
Si interruppe e sedette in mezzo al letto, gli occhi inutilmente sgranati nel buio.
Sentì sua moglie muoversi al suo fianco. Con la mano le cercò le labbra e vi premette le dita con forza. Jessie cercò di resistere, afferrandogli il polso, ma lui premette con più forza.
Poi, all’improvviso, la lasciò. Lei gemette.
A bassa voce Lije disse: «Mi dispiace, cara. Stavo ascoltando».
Scivolò dal letto e si applicò una pellicola di Plastofilm tiepido alle piante dei piedi. Aprì una fessura della porta che dava nel soggiorno e aspettò un momento. Non successe niente. Era tutto tranquillo, riusciva a sentire il respiro sottile di Jessie dal letto. Poi il rumore sordo del proprio sangue gli riempì le orecchie.
Baley infilò una mano nella fessura della porta e scivolò verso un punto della parete che conosceva a memoria. Le dita si strinsero sulla manopola che serviva ad accendere la luce. Esercitò una lievissima pressione e il soffitto risplendette di un lucore pallido, debolissimo; così debole che metà della stanza rimase in penombra.
Aveva visto abbastanza, comunque. La porta principale era chiusa e il soggiorno era tranquillo e deserto.
Rimise l’interruttore in posizione e tornò a letto.
Era la prova che cercava. Ora tutti i pezzi combaciavano, lo schema era completo.
Jessie gli chiese, lamentosa: «Lije, cosa c’è che non va?».
«Niente che non va, Jessie. È tutto a posto. Lui non è qui.»
«Il robot? Vuoi dire che se n’è andato per sempre?»
«No, no, tornerà. Ma prima che lo faccia, rispondi alla mia domanda.»
«Che domanda?»
«Di che cosa hai paura.»
Lei non disse niente.
Baley insisté: «Hai detto di essere spaventata a morte».
«Di lui.»
«No, questo punto l’abbiamo già superato. Non ti sei mostrata impaurita in sua presenza, e sai abbastanza bene che un robot non può fare del male a un essere umano.»
Lei parlò lentamente. «Ho pensato che se la gente avesse capito che era un robot… ci sarebbe stata una sommossa. E noi saremmo stati uccisi.»
«Perché?»
«Sai come sono le sommosse.»
«Nessuno sa dov’è questo robot, giusto?»
«No, ma potrebbero scoprirlo.»
«E questo è tutto ciò che temi? Una sommossa?»
«Be’…»
«Ssst!» Costrinse Jessie a rovesciarsi sul cuscino, poi le avvicinò le labbra alle orecchie: «È tornato. Ora ascolta ma non dire una parola. È tutto a posto. Domani mattina se ne andrà e non tornerà più, te lo prometto. Non ci saranno disordini».
Si sentì soddisfatto delle proprie parole, completamente soddisfatto. Pensò che sarebbe riuscito ad addormentarsi, ora.
"Niente disordini, niente sommossa" pensò ancora una volta. "E niente declassamento."
Un attimo prima di addormentarsi, un ultimo pensiero gli attraversò il cervello: "Niente indagine. Basta. La cosa è risolta…".
Dormiva, ora.
VII
Escursione a Spacetown
Il questore Julius Enderby si pulì gli occhiali con premurosa attenzione e li piazzò a cavallo del naso.
Baley pensò: «È un buon trucco. Ti tiene occupato mentre pensi a cosa dire, e non è costoso come accendere una pipa».
E siccome quel pensiero gli era entrato nella mente, tirò fuori la sua e pescò nel contenitore del tabacco, uno dei pochi lussi che la Terra si concedesse e che ormai stava per finire. Durante la vita di Baley il prezzo era sempre salito e le razioni erano sempre diminuite.
Enderby, che si era sistemato gli occhiali, cercò l’interruttore a un’estremità della scrivania e per un momento rese la porta trasparente, ma solo nel suo senso. «A proposito, adesso dov’è?»
«Mi ha detto che voleva visitare il Dipartimento. Ho lasciato l’onore a Jack Tobin.» Baley accese la pipa e strinse accuratamente il diaframma. Il questore, come molti non-fumatori, era insofferente all’odore di tabacco.
«Spero non gli abbia detto che Daneel è un robot.»
«No, naturalmente.»
Il questore non riusciva a rilassarsi. Una mano continuò a trafficare senza scopo con il calendario automatico che teneva sulla scrivania.
«Come va?» chiese, senza guardare Baley.
«È abbastanza dura. Non troppo.»
«Mi dispiace, Lije.»
Baley disse, fermo: «Avrebbe potuto avvertirmi che il suo aspetto era completamente umano».
Il questore parve sorpreso: «Non l’ho fatto?». Poi, con improvvisa petulanza: «Maledizione, avresti dovuto capirlo. Non ti avrei chiesto di tenerlo a casa, se fosse stato come R. Sammy, ti pare?».
«Lo so, questore, ma io non avevo mai visto un robot come quello. Non credevo che cose simili fossero possibili. Mi sarebbe piaciuto che lei me lo dicesse, tutto qua.»
«E va bene, Lije, mi dispiace, avrei dovuto dirtelo. Hai ragione. È solo che questo lavoro mi provoca una tale tensione che finisco per essere brusco con la gente senza motivo. Lui, intendo quel coso, Daneel, è un nuovo modello. È ancora in fase sperimentale.»
«Me l’ha spiegato lui stesso.»
«Bene. Questo è tutto, credi.»
Baley s’irrigidì un poco. Questo era il momento. Con i denti stretti intorno al cannello disse, senza importanza: «R. Daneel ha organizzato una visita a Spacetown per me».
«A Spacetown!» Enderby alzò gli occhi con un lampo d’indignazione.
«Sì, questore, è la mossa da fare ora. Voglio vedere la scena del delitto e fare un po’ di domande.»
Enderby scosse la testa, deciso: «Non credo che sia una buona idea, Lije. Abbiamo già setacciato quel posto e dubito che ci siano altre cose da scoprire. Inoltre, quella è gente strana. Guanti di velluto! Va trattata con i guanti di velluto. Non hai la esperienza».
Si passò una mano grassoccia sulla fronte e aggiunse, con inatteso fervore: «Li odio».
Baley cercò di suonare altrettanto ostile: «Maledizione, il robot è venuto qui e adesso io voglio andare da loro. È già abbastanza brutto dividere il sedile davanti con un automa, non ho intenzione di essere trasferito su quello dietro! Ovviamente se lei ritiene che io non sia qualificato per continuare quest’indagine, questore…».
«Non è questo, Lije. Non è colpa tua, ma degli Spaziali; non sai come sono fatti.»
Baley aggrottò le sopracciglia. «Va bene, allora. Se lei venisse con noi?» Teneva la mano destra sul ginocchio e incrociò automaticamente le dita.
Il questore fece tanto d’occhi. «No, Lije, io non tornerò in quel posto. Non chiedermelo.» Dava l’impressione di uno che avesse parlato troppo impulsivamente e cercasse di rimediare all’errore. Con più calma, e con un sorriso nient’affatto convincente, disse: «Ho un mucchio di lavoro, credi. Sono indietro di parecchi giorni».
Baley lo guardò pensieroso. «Le dico io cosa faremo. La chiamerò via trimension da Spacetown, quando avrò qualche elemento. Non per molto; solo nel caso che mi serva il suo aiuto.»
«Va bene, questo si può fare.» Ma il questore non sembrava entusiasta.
«D’accordo.» Baley guardò l’orologio a muro, annuì e si alzò. «Mi terrò in contatto con lei.»
Quando uscì dall’ufficio, Baley tenne aperta la porta un secondo più del necessario. Vide il questore appoggiare la testa nell’incavo di un gomito e restare accasciato sulla scrivania. Avrebbe giurato di sentirlo singhiozzare.