Ozono! Stavano inondando il posto di raggi ultravioletti.
Una piccola insegna lampeggiò diverse volte, poi rimase accesa. Diceva: "I visitatori sono pregati di togliersi gli indumenti, scarpe incluse, e di porli nel contenitore sottostante".
Baley obbedì, poi slacciò il fulminatore e lo riaffibbiò intorno alla vita nuda. Era più scomodo e più pesante.
Il contenitore si chiuse e i vestiti sparirono. L’insegna si spense, ma un’altra si accese un attimo dopo.
Diceva: "I visitatori sono pregati di soddisfare i propri bisogni personali e quindi di dirigersi alla doccia indicata dalla freccia".
Baley si sentiva come il pezzo di una macchina messo insieme da raggi d’energia su una catena di montaggio.
Appena entrato nel cubicolo della doccia Baley avvolse la fondina nella protezione impermeabile. Sapeva, per lunga esperienza, che anche in quelle condizioni era in grado di estrarre e sparare in meno di cinque secondi.
Non c’erano ganci o sporgenze a cui potesse appendere il fulminatore, non c’erano manopole e nemmeno un rubinetto visibile. Mise la fondina in un angolo, ma non troppo vicino all’entrata del cubicolo.
Lampeggiò un’altra insegna: "Il visitatore è pregato di alzare le braccia davanti a sé e di tenere i piedi nel circolo centrale, servendosi degli appositi poggiapiedi".
Mentre Baley metteva i piedi nelle piccole depressioni fatte per loro, l’insegna si spense. Uno spruzzo caldo e pungente lo investì dal soffitto, dal pavimento e dalle quattro pareti: sentiva l’acqua sgorgare anche sotto le piante dei piedi. Durò un minuto buono, mentre la sua pelle si arrossava per l’effetto combinato del calore e della pressione, e i suoi polmoni cercavano aria nell’umidità soffocante. Seguì un altro minuto di spruzzi freschi e a bassa pressione, poi uno di aria calda che lo lasciò asciutto e rinfrescato.
Raccolse cintura e fondina e si accorse che erano asciutti anche quelli. Se li allacciò e uscì dal cubicolo in tempo per vedere R. Daneel che emergeva da una seconda doccia, lì vicino. Ma certo! Pur non essendo un abitante della Città, R. Daneel aveva accumulato la sua polvere.
Baley distolse gli occhi automaticamente dal corpo dell’automa; poi, al pensiero che i tabù della Città non valevano certamente per R. Daneel, si costrinse a guardare di nuovo. Le labbra gli si piegarono in un leggero sorriso: la somiglianza di R. Daneel con gli esseri umani non si limitava alla faccia e alle mani, ma era stata estesa con incredibile accuratezza a tutto il resto del corpo.
Baley continuò a spostarsi in linea retta, come aveva fatto fin dal suo ingresso nel Personale; e, sul fondo, trovò i suoi vestiti che lo aspettavano, ripiegati con cura. Sprigionavano un odore di caldo e pulito.
Lampeggiò un’insegna: "Il visitatore è pregato di indossare i propri vestiti e di porre la mano destra nell’apposita scanalatura della parete".
Baley obbedì e sentì una lieve puntura sul polpastrello del medio. La parete era pulitissima, color latte. Quando ritirò la mano vide una goccia di sangue dove l’avevano punto. Il sangue smise di scorrere mentre lo guardava.
Si pulì il dito e gli diede un pizzicotto: no, non ne usciva più nemmeno una goccia.
Era chiaro, gli analizzavano il sangue. Baley provò una fitta d’ansia: il check-up annuale che gli facevano in Città era più che altro un procedimento di routine, ma non veniva svolto con l’accuratezza e l’efficienza di questi fabbricanti di automi d’altri mondi. E lui non era sicuro di volere un controllo approfonito del suo stato di salute.
L’attesa gli sembrò lunghissima, ma quando l’insegna si accese di nuovo diceva semplicemente: "Il visitatore proceda".
Baley tirò un sospiro di sollievo. Fece qualche passo avanti e passò sotto un’arcata. Due sbarre di metallo si chiusero davanti a lui, mentre nell’aria si accendevano queste parole luminose: "Si intima al visitatore di non procedere oltre".
«Ma che diavolo…» cominciò Baley, dimenticando nella rabbia che si trovava ancora nel Personale.
R. Daneel gli disse all’orecchio: «I sensori hanno individuato una fonte d’energia, immagino. Hai il fulminatore con te, Elijah?».
Baley si girò di scatto, la faccia scarlatta. Prima di riuscire a parlare provò due volte: «Un agente investigativo deve sempre avere il fulminatore con sé, o a portata di mano, sia in servizio che fuori».
Era la prima volta che parlava a qualcuno in un Personale da quando era adulto; la volta precedente risaliva a quando aveva dieci anni ed era in compagnia di zio Boris. Lo zio gli aveva pestato un piede involontariamente e lui si era lamentato, ecco tutto. Ma quando erano arrivati a casa zio Boris l’aveva battuto di santa ragione e gli aveva ricordato che la pubblica decenza non va mai trascurata.
R. Daneel disse: «Non è permesso ai visitatori di entrare armati. È una nostra tradizione, Elijah. Perfino il tuo questore lascia il fulminatore alla porta, quando viene a trovarci».
In altre circostanze Baley avrebbe girato sui tacchi e se ne sarebbe andato da Spacetown e dal robot. Adesso, però, non vedeva l’ora di attuare il suo piano e così di vendicarsi.
La visita medica che aveva appena subito era una versione sbrigativa di quella che avveniva nel passato; Baley capiva perfettamente i sentimenti che avevano provocato i disordini di tanti anni prima, quando c’era ancora la Barriera.
Nero dalla rabbia, si tolse il cinturone. R. Daneel lo prese e lo piazzò in una nicchia scavata nella parete. Sopra campeggiava una targhetta di metallo.
«Se appoggi il pollice nell’incavo» disse R. Daneel «solo il tuo pollice potrà aprire la nicchia quando torneremo.»
Baley si sentiva più nudo che nella doccia. Superò le sbarre metalliche e finalmente uscì dal Personale.
Si trovavano in un altro corridoio, ma c’era qualcosa di strano. La luce che brillava in alto aveva un aspetto poco familiare. Baley sentì un soffio d’aria sulla guancia e pensò, automaticamente, che doveva essere passato un veicolo.
R. Daneel dovette indovinare il disagio che provava. Disse: «Ti trovi praticamente all’aperto, Elijah. Voglio dire, questa non è aria condizionata».
Baley provò una leggera nausea. Come potevano, gli Spaziali, essere così schizzinosi con i visitatori e poi respirare l’aria sporca dei campi? Si tappò il naso, come se in quel modo potesse difendersi dall’aria aperta.
R. Daneel disse: «Scoprirai, credo, che l’aria non è dannosa alla salute dell’uomo».
«Va bene» disse Baley, debolmente.
Le correnti arrivavano da tutte le parti, e non era piacevole. Non erano violente, ma imprevedibili: era questo che lo disturbava.
Poi venne il peggio. Il corridoio sfociò in un’apertura azzurra e quando si avvicinarono all’imboccatura vennero inondati di luce. Baley aveva già visto il sole, perché una volta, per servizio, era stato in un solarium naturale. Ma là c’era un vetro protettivo che racchiudeva l’orizzonte e l’immagine del sole veniva rifratta in modo da formare un alone diffuso. Qui, tutto era aperto.
Baley guardò il sole automaticamente, poi abbassò gli occhi. Gli bruciavano terribilmente, e lacrimavano.
Uno Spaziale si avvicinò. Baley fu preso momentaneamente in contropiede.
R. Daneel, tuttavia, strinse la mano al nuovo venuto. Lo Spaziale si voltò verso Baley e disse: «Vuole venire con me, signore? Sono il dottor Han Fastolfe».
All’interno delle cupole le cose andavano meglio. Baley strabuzzò gli occhi quando vide l’ampiezza dei locali e il modo in cui lo spazio veniva sprecato. Ma il ronzìo dell’aria condizionata lo tranquillizzò.
Fastolfe sedette e incrociò le lunghe gambe, poi disse: «Credo che lei preferisca il condizionamento all’aria fresca».
Sembrava amichevole e aveva una simpatica ragnatela di rughe sulla fronte. Sotto gli occhi e sul mento la pelle era un po’ appesantita, ma i capelli radi non mostravano traccia di bianco. Le grandi orecchie a sventola gli davano un’aria comica e familiare che tranquillizzò Baley.