«Patate pressate, salsa di zimovitello, albicocche al forno. Oh, bene.»
Una forchetta e due fette di pan di lievito apparvero in uno scomparto del divisorio che correva in mezzo al tavolo.
R. Daneel disse a bassa voce: «Se vuoi ti do la mia parte».
Per un attimo Baley fu scandalizzato, poi fece mente locale e si limitò a borbottare: «Non sarebbe educato. Avanti, mangia».
Baley mangiò di buon appetito, ma senza il rilassamento che permette di godere il pranzo come si deve. Ogni tanto, e con discrezione, gettava un’occhiata a R. Daneeclass="underline" l’automa mangiava con precisi movimenti delle mascelle. Troppo precisi. Non sembrava naturale.
Strano! Ora che Baley sapeva per certo che R. Daneel era un robot, tanti piccoli particolari sembravano indicarlo palesemente. Per esempio, quando R. Dàneel inghiottiva non si vedeva il movimento del pomo d’Adamo.
Eppure, a Baley non importava. Si stava abituando alla creatura? Immaginiamo che la gente ricominci daccapo su un altro mondo (un’idea che gli tornava spesso, da quando il dottor Fastolfe gliela aveva suggerita); immaginiamo che Bentley, per esempio, dovesse lasciare la Terra: potrebbe vivere, e lavorare, insieme agli automi? Certo, perché no. Gli spaziali lo facevano.
R. Daneel disse: «Elijah, è cattiva educazione guardare un altro mentre mangia?»
«Se vuoi dire guardarlo direttamente, la risposta è sì. Ci si arriva con il buon senso, ti pare? Ognuno ha diritto alla sua privacy. Conversare mentre si mangia è legittimo, ma è meglio non guardare l’altro quando inghiotte.»
«Capisco. Allora come mai ci sono otto persone che non ci levano gli occhi di dosso?»
Baley posò la forchetta e si guardò intorno come se cercasse la saliera. «Io non vedo niente di strano.»
Ma lo disse senza convinzione: la folla dei commensali era solo un ammasso caotico. Quando R. Daneel puntò su di lui gli impersonali occhi castani, Baley pensò a disagio che non erano solo occhi, ma sensori che, probabilmente, gli permettevano di analizzare in frazioni di secondo l’intero ambiente.
«Ne sono certo» ripeté R. Daneel, calmo.
«E questo che cosa dimostra? Sono dei maleducati, tutto qui.»
«Non so, Elijah, ma ti pare una coincidenza che sei di loro facessero parte della folla che ha assalito il negozio di scarpe?»
XI
Fuga sulle strade mobili
Baley strinse convulsamente la forchetta.
«Sei sicuro?» chiese senza riflettere, e appena l’ebbe detto si rese conto dell’inutilità della domanda. Non si chiede a un computer se è sicuro della risposta che sforna, e lo stesso vale per un computer con braccia e gambe.
R. Daneel disse: «Sicuro.»
«Sono vicini?»
«Non molto, sono sparpagliati.»
«Va bene, allora.» Baley tornò al proprio pasto, muovendo meccanicamente la forchetta. Dietro la espressione accigliata della lunga faccia, la mente lavorava furiosamente.
Immaginiamo che l’incidente di ieri sera sia stato organizzato da un gruppo di fanatici anti-robot; che non sia nato spontaneamente come sembrava. In un gruppo simile potrebbero esserci degli esperti, gente che ha studiato i robot a fondo per combatterli a fondo. Uno di loro potrebbe aver riconosciuto Daneel per ciò che è. (Anche il questore ha ventilato un’ipotesi del genere. Maledizione, quell’uomo ha imprevedibili risorse…).
La cosa aveva un senso. Dato che la sera prima non erano riusciti a portare a segno il colpo, forse per mancanza di organizzazione, ora stavano studiando un piano per il futuro. Se erano stati in grado di riconoscere R. Daneel, certo avevano capito che Baley era a sua volta un agente di polizia. E un agente di polizia accompagnato da un robot umanoide doveva avere un incarico speciale. (Con il senno di poi Baley riusciva a seguire abbastanza facilmente il ragionamento dei cospiratori).
Dunque, avevano messo delle spie al Municipio (o addirittura negli uffici della Centrale) per tenere d’occhio Baley e R. Daneel prima che passasse troppo tempo. E in ventiquattr’ore erano riusciti a rintracciarli: non era sorprendente. Avrebbero potuto farcela molto prima, se Baley non avesse passato gran parte del giorno a Spacetown e sull’autostrada.
R. Daneel aveva finito il pasto e sedeva tranquillo, in attesa. Le mani perfette appoggiate all’estremità del tavolo avevano un’aria di leggerezza.
«Dobbiamo fare qualcosa?» chiese.
«Qui nella mensa siamo al sicuro» rispose Baley. «Lascia che me ne occupi io. Per favore.»
Baley si guardò intorno cautamente e fu come se vedesse una mensa per la prima volta.
Persone! Migliaia di persone. Quante ne poteva contenere un posto come quello? Una volta aveva visto delle statistiche: duemila e duecento circa, dicevano. E la mensa in cui si trovavano era più grande della media.
Se qualcuno avesse gridato, all’improvviso, la parola "Robot!", se l’avesse gettata in pasto all’orda come un…
Baley non riusciva a trovare un paragone, ma cercò di non preoccuparsi. Non sarebbe successo.
Una sommossa spontanea poteva nascere ovunque, nella mensa come nei corridoi o negli ascensori. Anzi, nella mensa c’era la mancanza d’inibizione che si accompagnava all’ora dei pasti e la miccia poteva accendersi più facilmente; l’eccitazione della gente poteva degenerare in qualcosa di grave per un nonnulla.
Ma i disordini programmati erano un’altra cosa. Nella mensa gli organizzatori si sarebbero trovati in mezzo a un’enorme quantità di gente, e una volta che i piatti fossero cominciati a volare e i tavoli a fracassarsi, non sarebbe stato facile scappare. Centinaia di persone sarebbero morte e i facinorosi tra loro.
No, i disordini "sicuri" si potevano organizzare solo nelle arterie della Città, magari su un tratto di nastro mobile relativamente stretto. Il panico e l’isteria avrebbero viaggiato lentamente attraverso il quartiere e ci sarebbe stato tutto il tempo, per i caporioni, di fuggire da un nastro laterale o di immettersi sulla strada locale che li avrebbe portati ai livelli più alti, al sicuro.
Baley si sentì in trappola. Probabilmente ce n’erano altri, all’esterno. Baley e R. Daneel sarebbero stati inseguiti fino a un punto sicuro e poi la miccia sarebbe esplosa.
«Perché non li arrestiamo?» chiese l’automa.
«Servirebbe solo a precipitare le cose. Tu conosci le loro facce, vero? Non le dimenticherai?»
«Io non posso dimenticare.»
«Allora li inchioderemo, prima o poi. Per adesso cerchiamo di fare un buco nella rete che ci hanno teso. Seguimi e fai esattamente come me.»
Si alzò e mise il piatto, rovesciato, sul disco in mezzo al tavolo; poi mise a posto la forchetta. R. Daneel, che lo guardava, ripeté gli stessi gesti. Piatti e posate sparirono.
R. Daneel disse: «Si alzano anche loro».
«D’accordo. Ho la sensazione che non ci verranno troppo vicini. Non qui.»
I due si misero in fila, seguendo la scia che abbandonava la mensa; man mano che si avvicinavano all’uscita risuonava, come un canto rituale, il ticchettio delle piastre mètalliche. Ogni click scandiva la consumazione di una razione.
Baley si guardò alle spalle nella confusione e nell’alone di vapore che avvolgeva tutto, e con improvvisa vividezza ricordò una visita che aveva fatto con Ben allo Zoo Cittadino sei o sette anni prima. No, otto, perché Ben aveva appena festeggiato l’ottavo compleanno. (Accidenti, ma dove si precipitava il tempo?)
Per Ben era la prima visita allo zoo ed era tutto eccitato: dopotutto non aveva mai visto un cane o un gatto prima di allora. E poi erano arrivati alla voliera degli uccelli, altissima! Perfino Baley, che l’aveva vista non so quante volte, non era immune dal suo fascino.
C’è qualcosa, nella vista di una creatura vivente che vola, d’incomparabilmente strano, magico. Era ora di pranzo, nella gabbia dei passeri, e l’inserviente stava distribuendo i pezzetti d’avena nella lunga mangiatoia. (Gli esseri umani si erano abituati ai lieviti e ai loro derivati, ma gli animali, a loro modo più conservatori, insistevano per avere cereali autentici).