Ma il braccio di R. Daneel gli passò intorno alla schiena e lo sollevò con più forza di un uomo.
«Grazie» ansimò Baley, e non ci fu tempo per altro.
Continuò lungo i nastri deceleranti seguendo un disegno complicato il cui scopo era di raggiungere la giuntura a "V" della strada celere al punto esatto d’incrocio. Senza perdere il ritmo, Baley accelerò di nuovo e dopo un po’ si trovò davanti alla strada celere, che abbordò.
«Ci segue ancora, Daneel?»
«Io non vedo nessuno, Elijah.»
«Bene. Che campione saresti stato, a "corri sui nastri"…! Oops, adesso! Salta!»
Di nuovo su una strada locale, lungo le strisce deceleranti che conducevano a una porta dall’aspetto grande e ufficiale. Una guardia si alzò in piedi.
Baley mostrò la piastra di riconoscimento: «Ragioni ufficiali».
Entrarono.
«Una centrale energetica» disse Baley, rapidamente. «Questo farà perdere completamente le nostre tracce.»
Era già stato altre volte in una centrale energetica, questa inclusa, ma l’abitudine non attenuava il suo disagio reverenziale. E la sensazione spiacevole era acuita dal pensiero che suo padre, una volta, era stato al vertice di una centrale identica. Cioè, prima che…
Furono avvolti dal gigantesco ronzio dei generatori nascosti nel pozzo della centrale, dal leggero ma inconfondibile odore dell’ozono nell’aria, dalla cupa e silenziosa minaccia delle linee rosse che delimitavano l’area dove nessuno poteva avventurarsi senza tuta protettiva.
Da qualche parte (Baley non sapeva esattamente dove) circa mezzo chilo di materiale fissile veniva consumato ogni giorno. E ogni giorno i prodotti della fissione radioattiva, le cosiddette "ceneri calde", venivano convogliate dalla pressione dell’aria in condotti di piombo che le scaricavano in lontane caverne scavate nell’oceano, a quindici chilometri dalla costa e a quasi ottocento metri sotto il fondo. A volte Baley si domandava che sarebbe successo quando le caverne si fossero riempite.
Disse a R. Daneel, con una certa rudezza: «Stai lontano dalle righe rosse.» Poi rifletté un momento e aggiunse più mite: «Ma suppongo che per te non abbia importanza».
«Si tratta di radioattività?» chiese Daneel.
«Sì.»
«Allora ha importanza. I raggi gamma compromettono il delicato equilibrio del cervello positronico, e i danni si vedrebbero molto prima su di me che su di te.»
«Vuoi dire che potrebbero ucciderti?»
«Voglio dire che dovrebbero mettermi un nuovo cervello positronico, e dato che non ce ne sono due perfettamente uguali, il Daneel con cui ora stai parlando sarebbe morto. In un certo senso, almeno.»
Baley dette un’occhia al robot, dubbioso. «Non lo sapevo… Saliamo questa rampa.»
«Non è un punto che venga reclamizzato. Spacetown vuole convincere la Terra della nostra utilità e resistenza, non delle nostre debolezze.»
«Allora perché me lo dici?»
R. Daneel fissò a viso aperto il compagno umano. «Tu sei il mio collega, Elijah. È bene che tu sappia quali sono i miei difetti e i miei punti deboli.»
Baley si schiarì la gola, ma non trovò niente da aggiungere.
«Da questa parte» disse un attimo dopo. «Ci troviamo a pochi passi dal nostro appartamento.»
Era un appartamento sporco, proletario, composto da una stanza con due letti, un armadio e due sedie pieghevoli. C’era uno schermo subeterico incassato nella parete, ma non si poteva regolare con i comandi manuali e funzionava solo a certe ore (e allora non c’era verso di spegnerlo). Niente lavandino, nemmeno disattivato, niente angolo di cottura e bollitura dell’acqua. In un angolo c’era un piccolo condotto per le immondizie: un oggetto disadorno, brutto e spiacevolmente funzionale.
Baley si strinse nelle spalle. «Questo è quanto. Credo che riusciremo a sopportarlo.»
R. Daneel si diresse al condotto dell’immondizia e con un gesto si aprì la camicia sul petto, che sembrava liscio e, almeno alle apparenze, muscoloso.
«Che fai?» chiese Baley.
«Mi libero del cibo che ho ingerito. Se ce lo lasciassi andrebbe a male e io diventerei oggetto di disgusto.»
R. Daneel piazzò due dita sotto un capezzolo e premette in un determinato modo. Il petto si aprì longitudinalmente. R. Daneel allungò una mano all’interno e da un ricettacolo di metallo luccicante prese un sacchetto sottile e trasparente, in parte ripiegato. Lo aprì sotto gli occhi di Baley, che era prossimo all’orrore.
R. Daneel esitò, poi disse: «Il cibo è perfettamente integro perché io non mastico e non produco saliva. È stato ingerito per aspirazione, quindi è ancora mangiabile».
«Grazie, non ho fame» disse Baley gentilmente. «Liberatene.»
Il sacchetto doveva essere di plastica speciale, decise Baley, perché il cibo non vi si attaccava; uscì facilmente e finì nel tubo di scarico. "Uno spreco di cose buone" pensò l’uomo.
Sedette su uno dei letti e si tolse la camicia. «Propongo una levataccia, per domani.»
«C’è una ragione specifica?»
«I nostri amici non conoscono ancora l’ubicazione dell’appartamento, o almeno lo spero. Se ci alziamo presto staremo tanto più al sicuro. Una volta alla centrale decideremo se la nostra associazione è ancora una cosa conveniente.»
«Tu pensi di no?»
Baley si strinse nelle spalle e disse, sfatto: «Non possiamo perdere il nostro tempo a correre».
«Ma mi sembra…»
R. Daneel fu interrotto dal lampeggiare della luce scarlatta del campanello.
Baley si alzò in piedi silenziosamente e tolse il fulminatore dalla fondina. La luce scarlatta lampeggiò di nuovo.
Baley andò dietro la porta, mise il pollice sul pulsante dell’arma e fece girare l’interruttore che attivava lo spioncino unilaterale. Non era un buono spioncino: la zona trasparente era piccola e distorceva le immagini, ma bastò a rivelare il figlio di Baley, Ben.
Baley reagì immediatamente: spalancò la porta, afferrò brutalmente il polso del ragazzo che stava per suonare una terza volta e lo trascinò all’interno.
Solo lentamente Ben si riebbe dallo stupore e dalla paura mentre cercava di riprendere fiato contro la parete dove era stato scaraventato dal padre.
Si sfregò il polso e disse, afflitto: «Papà, non avresti dovuto prendermi così».
Baley guardava di nuovo attraverso la zona trasparente della porta, che aveva richiuso. Il corridoio, per quanto poteva dire, era vuoto.
«Ben, hai visto nessuno là fuori?»
«No. Cielo, papà, era solo venuto a vedere se stavi bene.»
«Perché non dovrei stare bene?»
«Non lo so. È stata mamma, piangeva e tutto il resto. Ha detto che dovevo trovarti, e che se non mi muovevo veniva lei e non sapeva quello che sarebbe successo. Mi ha costretto a venire, papà.»
«Come mi hai trovato?» chiese Baley. «Tua madre sapeva dov’ero?»
«No, ma ho chiamato il tuo ufficio.»
«E te l’hanno detto?»
Ben era sorpreso dalla violenza del padre. A voce bassa, rispose: «Certo. Perché, non dovevano?».
Baley e R. Daneel si guardarono in faccia.
Baley si avvicinò al figlio e disse: «Dov’è tua madre, Ben? A casa?».
«No, è andata a cena dalla nonna ed è rimasta là. Anche io devo tornare là. Voglio dire, se tutto va bene, papà.»
«Rimarrai qui, invece. Daneel, hai osservato L’esatta posizione del comunico di questo piano?»
Il robot disse: «Sì. Intendi lasciare la stanza per usarlo?».
«Devo mettermi in contatto con mia moglie.»
«Se posso suggerirlo, questo è compito più adatto a Bentley. La cosa comporta un rischio e lui è meno importante.»